Incontri Ravvicinati di un Certo Tipo

Manca poco. Sono a metà strada ed il tempo è mio fedele alleato. Ancora qualche istante prezioso e poi, con malcelata tristezza, lascerò questi luoghi. Con la punta del naso incollata alle pagine della guida, realizzo di non aver ancora alcuna certezza circa la lunghezza del ponte che sto percorrendo. Riemergo da quelle pagine provando a raccogliere le idee. Cerco aiuto nel cellulare ma fa troppo caldo e la luce abbagliante del sole rende il display praticamente illeggibile. Contrariato e deluso, allora tento ad occhio nudo a determinare spannometricamente la lunghezza effettiva del ponte di Galata, quando all’improvviso sento qualcosa di freddo sfiorarmi il lobo sinistro. 

La mano, che un attimo prima stava armeggiando col telefono, copre in men che non si dica la distanza che la separa dal mio orecchio e inizia a tastare l’aria lì attorno, alla ricerca di qualcosa che c’è ma che non ci dovrebbe essere. Mentre le mie dita scodinzolano rapide attorno alla nuca, un sibilare acuto ed un sensibile spostamento d’aria mi fanno sussultare e girare di scatto. Giusto in tempo per vedere il colpo di reni di un pescatore intento a lanciare dal ponte la lenza della sua canna da pesca. A mezz’aria, esaltato dal sole, vedo anche il luccichio dell’amo. Ma è un attimo. Tutto sparisce in fretta, inghiottito dalle onde furiose ed avide del mare. C’è mancato poco. Qualche centimetro appena ed il mio lobo sarebbe diventato prelibato cibo per pesci.

Mi tocco l’orecchio, come per assicurarmi che tutto sia al suo posto e torno involontariamente con lo sguardo in direzione del pescatore. Non c’è più. O meglio, ora ne vedo a grappoli, di pescatori, disposti fianco a fianco e spalmati su tutta la lunghezza del ponte. La maggioranza indossa un cappellino per ripararsi dai raggi di un sole arroventato ed incapace di mostrare pietà verso l’umana specie. Tutti, ovviamente, mi danno le spalle e la cosa rende quasi impossibile determinarne l’età anagrafica. Alcuni di loro indossano una maglietta con le maniche arrotolate fin quasi all’altezza delle spalle. Altri, invece, indossano semplici camicie di lino bianco, sgualcite ma a tono con l’azzurro del cielo terso e il blu cobalto del mare sottostante.

Il boato di un traghetto riempie l’aria ed i miei pensieri, come un branco di gazzelle al cospetto di leone affamato, si disperdono in un batter d'occhio. Vedo due pescatori cominciare a sollevare il filo delle canne da pesca per agevolare il passaggio sotto al ponte dell’imbarcazione. A ruota, tutti gli altri pescatori li imitano, dando a quei movimenti una suggestiva sincronia.

Imbambolato, non mi accorgo di un gabbiano che, attratto dal pesce pescato che guizza nei tanti secchielli alle spalle dei pescatori, vola proprio in prossimità del mio orecchio sinistro. “E che palle!”– esclamo io abbassandomi d’istinto e mulinando le braccia. Il pennuto atterra sul tettuccio di un carretto ambulante a qualche metro di distanza. Mi ricompongo ma, guardandolo, ho la netta sensazione che mi stia sfidando con lo sguardo, aspettando con calma il momento buono per sferrare il prossimo attacco. Il tizio del baracchino, un ventenne con una clamorosa chioma cotonata, per nulla intimorito dalla presenza dell’uccello, se ne sta lì tranquillo, intento a sponsorizzare a gran voce i suoi panini ripieni di pesce grigliato. Ci prova anche con me, quando, con garbo, gli sfilo davanti.

“Adesso no grazie. Magari dopo che ora c’ho il gabbiano assassino che mi mette giusto un filo di pressione”

Continuo a camminare sul ponte ma forse è il ponte stesso che mi si srotola da sotto i piedi. Il panorama è sublime ed io mi godo il più possibile la passeggiata, mentre la brezza salata alzata dall’incresparsi delle onde mi accarezza la faccia levigandomi mento e guance.

A un certo punto sento la mia gamba impattare contro qualcosa. “Ma che diavolo - Mi guardo i sandali quasi sicuro di incontrare nuovamente il gabbiano kamikaze. Invece no. Laggiù, aggrappata al mio ginocchio destro, c’è una bambina, microscopica, un fagotto in grado a malapena di camminare e respirare contemporaneamente. Mi guarda dal basso coi suoi occhi marroni e ride. Me ne resto lì impalato indeciso sul da farsi quando una figura ricoperta quasi interamente da un velo nero si avvicina rapidamente. Riconosco nei suoi occhi, l’unica parte visibile del suo corpo, gli stessi occhi della piccola. La donna sembra tutt’altro che arrabbiata circa l’intraprendenza della figlioletta, non lo posso vedere chiaramente sotto quella palandrana nera, ma la sensazione è quella. Dopo essersi messa in braccio la piccola fa un leggero inchino con il capo e se ne va malinconica nella direzione opposta alla mia. La creaturina si volta ancora una volta regalandomi un ultimo sorriso sdentato. Mi sciolgo anch'io e ricambio. Madre e bimba sbiadiscono uscendo dal mio campo visivo, ed io mi ritrovo a chiedermi se la piccola, crescendo, sarà in grado di conservare la spensieratezza e la libertà che quei due occhi testimoniavano così chiaramente.

Riprendo il mio cammino verso Occidente; dall’altro lato dell’arcobaleno troverò lei ad aspettarmi. O almeno lo spero. Ci siamo dati appuntamento davanti alla stazione dei traghetti, situata alla fine del ponte. A pochi metri dal traguardo, ma sul lato sbagliato, decido di attraversare, sfruttando uno dei due sottopassaggi all’estremità del ponte. Farlo nell’ora di punta di quel morente pomeriggio agostano è un’esperienza tendente al surreale: faccio il primo scalino e poi mi fermo ad ammirare lo spettacolo. Un fiume umano scorre incessantemente in entrambi i sensi di marcia, come correnti fredde e calde che si scontrano vorticando in mare aperto. Sono titubante ma non ho alternative. Devo arrivare dall’altra parte. Trattengo il respiro e mi tuffo in questo brulicare di gente. L’impatto con il fiume umano è tremendo: uomini, donne, bambini, ognuno tenta di guadagnarsi un centimetro alla volta in una lotta corpo a corpo pacifica ma oltremodo provante. Nota addirittura dei gatti che camminano sopra le teste e le spalle delle persone. Come se già non bastasse, una puzza di sudore e dio-solo-sa-cosa si propaga nell’atmosfera riempiendo ogni centimetro quadrato del sottopasso e rendendo l’aria irrespirabile. In apnea come Umberto Pellizzari, abbasso la testa e scivolo faticosamente verso i saltuari e volatili spiragli che mi si aprono davanti. Dopo interminabili istanti giungo finalmente in prossimità degli scalini, sul lato opposto; il più sembra fatto. Sono sudato fradicio, mi lacrimano gli occhi e ho il naso ancora tappato per via dei terribili odori. Ma con sgomento noto che la calca si è come bloccata. Vedo la luce sopra di me farsi sempre più fioca, come se un boa costrictor mi avesse intrappolato nella sua morsa e stesse premendo contro il mio torace. Sto per svenire ma poi avviene qualcosa di miracoloso. Incomincio ad avvertire una pressione dietro la schiena. Niente di minaccioso o particolarmente doloroso, piuttosto un lieve abbraccio che mi avviluppa e rassicura. Comincio a muovermi,. Tutti noi, bloccati un attimo prima in quei pochi metri quadrati, cominciamo a spostarci. La cosa stupefacente è che piedi e gambe sono immobili. Non so come, ma sono parte del fiume umano e sto risalendo le scale guadagnando così l'uscita senza muovere un muscolo. Di pura inerzia riemergo in superficie. Mi sento come quando da bambino smontavo dalle montagne russe di Gardaland impaziente di ripetere il 'giro'. Sono euforico e per un attimo considero l’idea di rituffarmi in quel sottopassaggio e riprovare quella sensazione, ma la constatazione amichevole in atto tra sole ed orizzonte mi ricorda che il tempo a mia disposizione sta scadendo. Allungo il passo in direzione della stazione dei traghetti, i miei occhi si lanciano all'inseguimento di sagome lontane alla ricerca della persona giusta. Non la trovo, in compenso mi imbatto in altri volti, decine, centinaia di facce appartenenti a questa favolosa città. Volti scavati e vissuti, volti freschi e impazienti di vivere, volti stanchi e provati dalla stessa vita, volti colmi di dignità e‘hüzun’, la malinconia incurabile che, secondo Orhan Pamuk, accomuna tutti i suoi concittadini. Queste ed altre confuse considerazioni rimbombano nella mia testa, quando a un tratto mi sembra di scorgere in lontananza due enormi monoliti. Tenebrosi e mastodontici, come colonne antiche che segnalano la fine del mondo anticipando l’ignoto. Eccola! Ora scorgo anche lei, al riparo dal sole grazie all’ombra gigantesca disegnata in terra dalle enormi sagome. Guadagno qualche metro soltanto prima di realizzare di non essere dinanzi a delle moderne Colonne d’Ercole. Si tratta solamente dei suoi due trolley da viaggio. Anche lei mi vede, e accenna un sorriso. Sembra contenta di vedermi. È molto bello quando trovi una persona che sa ‘aspettarti’.

A pochi passi da lei inciampo nei suoi meravigliosi occhi verdi, e su tutto quello che essi riflettono: la Moschea Nuova, uno scorcio del Gran Bazar, le cime imperiose del Palazzo Topkapi che si intravedono fra i rami degli alberi del parco Gülhane, la silhouette della Moschea di Solimano..”


“Ciao, sei pronto a tornare a casa?!” – dice lei schioccandomi un bacio.


“Mica troppo”


Come un impavido domatore di trolley, afferro i due mostri con le ruote, e dopo averli sellati a modo, li monto entrambi dirigendomi in zona taxi. Lei ricambia il favore, trasportando il mio di bagaglio: uno zaino da escursione che contiene anche un suo paio di pesanti scarpe invernali, molto utili ad agosto, specie se una pioggia di meteoriti dovesse far scivolare la Terra fuori dal suo asse di rotazione sconvolgendone così il clima. Più in là, dal minareto della Moschea Yeni Giamì, l’ultima preghiera del giorno si diffonde nell’aria per mezzo della voce registrata del muezzin. Il canto sacro, in collaborazione con lo spettacoloso tramonto, contribuisce a cristallizzare nella mia memoria quel momento. Fermiamo la prima auto gialla che passa e dopo averla colonizzata col bagaglio troviamo pure un pertugio per rintanarci. Ci muoviamo quasi subito ma la piramide di valige che affolla l’abitacolo mi impedisce di respirare. Riesco a liberare un braccio e a tirar giù il finestrino. Mentre guardo fuori, mi metto a pensare che forse a partire sarò solo io. Che forse la mia testa rimarrà qui, ostaggio felice di Istanbul per chissà quanto tempo ancora.


Dopo pochi secondi il taxi è già fermo, incolonnato nel terrificante traffico turco proprio in prossimità del ponte.


“Ma sai che da nessuna parte c’è scritto quanto è lungo il Ponte di Galata?! Cioè, mi sembra un’informazione banale, essenziale. Cosa devo fare per saperlo, mandare una e-mail a Renzo Piano?”


“È lungo 490 metri” – fa lei.


“E tu che ne sai?” – replico incredulo.


“L'ho letto sulla guida. Hai presente no? Quel libro arancione, pieno di parole, che tieni gelosamente in mano da quattro giorni".


Mi faccio piccolo, talmente piccolo che Istanbul sembra inghiottirci. Finché non resta più niente. Solo l’azzurro del cielo e il blu del mare.


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