Fuori il caos

Siano maledetti i dottori e chi gli ha insegnato a scrivere. Li riconosci subito, i dottori, basta guardare come adoperano la bic: con la penna violentano e torturano innocenti fogli di carta bianchi. Quando ti ritrovi fra le mani una delle loro vittime cartacee sembra di essere davanti a un sismografo e per riuscire a tradurlo non sai se chiedere a un accademico o a un geologo, se si è al cospetto di una rara malattia tropicale o alla mercé di un imminente terremoto.

Così mi sento io, mentre fermo in auto, provo a decifrare il geroglifico del dottor Sollievi. Trattasi di un referto che dovrebbe far luce sulla mia condizione di salute mentale. Sembra abbia un problema. Non ne sono del tutto sicuro, per me i problemi li hanno gli altri. Le uniche parole leggibili sul referto sono, “disturbi dell’umore” e “mental breakdown”. Questo medico non mi piace neanche un po’: a me il disturbo dell’umore è venuto non appena ho letto ‘mental breakdown’… Me ne infischio di quello che dice, delle terapie e dei farmaci che mi ha prescritto, ho cose più importanti a cui pensare. Ad esempio adempiere al mio ruolo di cittadino retto e giusto e pagare il pizzo a quelli dell’Enel che sennò mi staccano la luce. Più o meno quello che c’è scritto sulla terza raccomandata che mi hanno recapitato a casa.

Come esco dalla macchina, che non potrei guidare dopo la sospensione della patente, un’aria spietata e gelida mi investe cogliendomi impreparato. L’autunno, che apre il concerto all’inverno, ci tiene a farmi sapere che il soundcheck è finito. Avvolgo la faccia in due metri di sciarpa e, con le mani disperse da qualche parte nelle tasche del piumino, mi muovo a passo svelto verso l’ingresso dell’ufficio postale. Manca un minuto alle diciotto, ma il paesaggio lunare che mi circonda sembra proiettarmi dritto in una dimensione atemporale, in cui il sole si è dimenticato di sorgere e il freddo è padrone di ogni cosa. Spero solo che, all’interno dell’edificio, ci sia più caldo. La porta di vetro all’ingresso percepisce magicamente la mia presenza e si spalanca. Chiudo per un attimo gli occhi sperando che dentro non ci sia nessuno, magari solo io e due ‘operatrici’ discinte vogliose di risolvere tutti i miei problemi. Ma la realtà non è mai come vorrei. Una quindicina di persone ingombrano la stanza a tinte blu e giallo, di operatrici mozzafiato nemmeno l’ombra. Al loro posto due impiegati, sulla cinquantina, con più denti in bocca che capelli in testa. Sconfortato mi dirigo verso il robottino che predice il futuro e ti dice quanto dovrai aspettare in coda scrivendotelo su un bigliettino di carta. Il display, uguale in tutte le Poste della galassia, consente di scegliere fra svariate tipologie di coda, tra cui: la fila di chi deve impacchettare roba o ritirare roba impacchettata; la fila di chi deve pagare bollette; poi c’è la coda più benevola, quella riservata ai correntisti delle Poste Italiane. A loro e solo a loro, infatti, viene concessa una corsia preferenziale per qualsivoglia operazione postale. Io sono nel club e festeggio premendo il pulsante di riferimento e aspettando che C1P8 sputi il numerino. Di norma la macchina è dotata di due fessure, una in basso a sinistra, l’altra simmetrica a destra. Non sapendo da che parte uscirà la ricevuta, dopo aver premuto il tasto, mi metto davanti al robottino e allargo entrambe le braccia. Ma mi sento subito a disagio in questa posizione, sembro il Cristo di Rio, e percepisco gli sguardi della gente attorno a me. Distrazione fatale: la macchinetta, approfittando della mia disattenzione, spara fuori la ricevuta di carta con la solita fulminea rapidità. Cavalcando chissà quale corrente d’aria, il fogliolino di carta inizia a fluttuare per l’ufficio. Lo rincorro maldestramente per svariati metri imprecando e suscitando l’ilarità degli astanti. Mi blocco, rosso in volto, e decido di porre fine al pubblico ludibrio aspettando che la ricevuta cartacea tocchi il pavimento. Perché prima o poi accadrà e Newton non sbaglia un colpo. Puntualmente, dopo un paio di giri della morte, il fogliolino effettua un atterraggio di emergenza proprio in prossimità della porta all’ingresso. Innervosito non poco dall’imprevisto mi sposto per andare a raccattare quanto è mio di diritto fulminando con lo sguardo tutti quelli che mi stanno ancora fissando. Mentre mi muovo, uno spilungone brizzolato dall’aspetto molto comune varca la porta automatica all’ingresso e si ferma a due centimetri dal punto esatto in cui si trova il numerino. Nonostante mi avvicini, il tizio, dopo aver dato una sbirciatina al tabellone elettronico, si china furtivo per prendere ciò che è mio e se lo fa sparire nelle tasche.


“Hey, quello è mio”


“Salve! Piccolo il mondo eh?”


“Il biglietto che si è infilato in tasca è il mio”


“Suo? Io l’ho trovato per terra”


“Mi è scivolato in terra e lo stavo raccogliendo”


“E come potevo saperlo?”


“Glielo sto dicendo adesso. E, mi creda, meglio lo tiri fuori se ci tiene al suo sorriso”


“Cosa fa, mi minaccia? Lei è proprio una causa persa”


La sua insolenza mi fa ribollire il sangue e a stento mi trattengo dal mettergli la mani addosso. C’è troppa gente, devo controllarmi; ho già combinato troppi guai. Lo afferro per il bavero del giubbotto e, strattonandolo con decisione, avvicino il suo orecchio alla mia bocca:


“Ridammelo. Ora!” – gli sussurro con trasporto


Il coniglio, scuotendo la testa in segno di disappunto, si fruga in tasca e mi riconsegna ciò che è mio. Nonostante la mia discrezione, all’interno dell’ufficio postale sembra essere calato il gelo. Tutti, ma proprio tutti, stanno guardando nella nostra direzione.


“Beh, che avete da guardare pezzi di merda!?” – È quello che vorrei tanto far uscire dalla mia bocca. Ma anche qui mi reprimo, cercando di non ricadere nelle vecchie abitudini. Noto una sedia libera al centro della stanza, faccio dieci metri lunghi un chilometro e mi siedo lì. Si accomoda anche la mia rabbia, cerco di domarla, contenerla, ma è difficile, come tentare di accarezzare un animale costretto a vivere in gabbia. Alla fine la bestia si placa e l’autocontrollo prende una bella boccata d’aria. Con la fine del simpatico siparietto, le operazioni in corso all’interno dell’ufficio riprendono il loro regolare svolgimento. Nonostante l’attacco d’ira se ne sia andato, sento il bisogno di distrarmi, di pensare ad altro e per la prima volta da quando è venuto al mondo guardo lui, il bigliettino di carta. C’è scritto: E096. Il tabellone luminoso, invece, dice E093. Non dovrebbe essere un’attesa spasmodica ma voglio comunque impedire ai miei occhi di incrociare lo sguardo con quel bastardo. Non voglio giocare col fuoco che mi arde dentro. Lascio così che lo sguardo rimbalzi come la pallina di un flipper fra le pagine della rivista che sta leggendo il vecchietto alla mia destra.


BIP! (A094)


Se non ti lecchi le dita godi solo a metà dice l’inserzione pubblicitaria. Guardo l’anziano signore, e provo a immaginarmelo intento a ciucciarsi le dita artritiche appena estratte da un pacchetto di patatine giallo radioattivo. A fatica riesco a reprimere un conato di vomito solo immaginando nella stessa scena la ragazza di fianco a me. Ma l’idea che un bel fiore così ‘goda solo a metà’ mi mette tristezza. Meriterebbe ben altra sorte. Sta parlando con quello che sembra essere il suo ragazzo. Sì e no quarant’anni in due. L’oggetto della discussione sembra essere quello delle recenti elezioni americane.


“Votiamo Silvio e ci lamentiamo, poi osanniamo il falso negro.. siamo una nazione patetica” – fa lui


“Ma perché? A me sta simpatico Obama. Meglio lui che l’altro dai. Come si chiama? Rooney vero?”


BIP! (A095)


La mia attenzione si scolla per un momento dal dibattito fra i due ragazzi e si lancia all’inseguimento del fondoschiena femminile che si è appena alzato da una sedia dall’altro lato della stanza. Lo seguo con lo sguardo lungo tutto il tragitto fino allo sportello. Non riesco ancora a dare un volto a quel sedere, ma ciò che quei glutei rappresentano sembra già una discreta garanzia. E’ passato davvero molto tempo da quando ho avuto l’ultima relazione stabile. Forse potrei cogliere l’occasione e fare una corte spietata alla padrona di quelle natiche. Ma anche se dovessi riuscire nel mio intento, poi inizierebbe la fase difficile. È tutta una questione di sapersi giocare le proprie carte. Una chance ce l’hanno tutti e io ho sfruttato e poi sperperato le mie. Ho sempre avuto un qual certo talento nel far breccia nelle persone. Gli amici pensano che il mio problema consista nel fatto che io picchi le mie compagne. Non le picchio mica sempre, e comunque non è questo il problema. Quella che mi manca è la costanza di rendimento col gentil sesso. Parlo di rendimento emotivo, feeling empatico, della capacità di modellarsi a seconda degli umori della tua compagna.


BIP! (A096)

È il mio turno. Faccio un cenno di saluto a Miss Culo 2012 e mi scollo dalla sedia. Sto per arrivare allo sportello quando un’ombra s’infila tra me e l’impiegato.


“Senta, ho una certa urgenza, devo solo spedire questa lettera”


A rivolgersi così all’operatore è lui, il brizzolato. Per un secondo il significato di mental breakdown mi si svela in tutta la sua verità. Solitamente i predatori decidono di non attaccare, fintanto che i costi in termini energetici supererebbero i benefici. E di benefici ne ricaverei ben pochi. Ma la rabbia cieca, tornata alla carica, ha già preso il sopravvento. In un attimo gli sono dietro. Anche lui è al corrente della mia presenza ma preferisce ignorarmi come fossi un fastidioso moscerino. La mia mano destra lentamente si alza e gli sfiora delicata la spalla.


“Ancora lei? Guardi ho una fretta terribil..”


Lo colpisco al volto con un diretto di rara violenza. Mentre affondo il colpo sento chiaramente il crac del setto nasale che cede. Il brizzolato emette un gemito di dolore e cade sulle ginocchia. Mentre l’intera sala sbotta di paura, mi stupisco del fatto che il tipo non abbia perso conoscenza e che sia ancora lì a ciondolare. Un diretto sul naso è tremendamente debilitante e forse solo un pugile semi-professionista ubriaco è in grado di reggerlo senza andare KO.

Reggendosi il volto insanguinato con le mani, il tizio si rimette addirittura in piedi. Sono piacevolmente stupito. Ma oggi non è il suo giorno fortunato. Opto per un semplice calcio. Il colpo, inferto con il collo del piede, s’infrange diretto sulle articolazioni del ginocchio sinistro dell’uomo. Il rumore dell’osso spezzato questa volta rimbomba nel locale. Tutt’intorno la gente presente inizia a urlare e a dileguarsi fuori dall’edificio. Uno degli impiegati guadagna la porta sul retro. Mentre l’altro parla al telefono con qualcuno, forse la polizia. Mi godo questi secondi di pace. Per terra, a pochi centimetri dalla mia gamba destra giace privo di conoscenza quel gran maleducato. Una donna gli si avvicina per cercare di rianimarlo.


“Dottor Sollievi! Mioddio.. Dottor Sollievi mi sente?”


Con il gomito sul banco dello sportello e la testa puntellata sulla mano destra, mostro il numero stampato sul bigliettino all’impiegato. Quello rimane impietrito per almeno un minuto prima di riattaccare la cornetta del telefono. Poi, chissà da quale profondità emette un suono che assomiglia tanto a un Mi dica?


“Sì salve, dovrei pagare questa bolletta”


Fuori, intanto, il caos.


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