Incursioni Liquide


“Disegnami un cuore”

 La sua voce mi arriva lontana. Mi ricorda vagamente quella di mia madre al mare quando, da piccolo, cercavo di sfuggire ai suoi rimproveri inabissandomi sotto il pelo dell’acqua. Oggi non è cambiato granché: al posto del Mar Tirreno, fra me e i rimproveri della mamma ci sono ora 500 chilometri. La voce appartiene alla mia compagna e mi sta mettendo alla prova. Come sempre. Come se il fatto di avermi addomesticato, unica al mondo nel riuscirci, non fosse già garanzia sufficiente per starsene tranquilli e godersi questa vita passionale e maldestra.
 “Ce la fai? No, dico, ce la fai a disegnarmi un cuore?”
Ancora una volta, nonostante siamo entrambi in cucina, la percepisco lontana. Sbadiglio, e nel farlo, le mie orecchie, finalmente, si stappano riducendo le distanze fra me e il resto dell’umanità.
“niente di più facile”
Lo dico molto sicuro di me. Non perché in realtà lo sia, piuttosto perché l’arroganza sviluppata in questi anni mi ha sempre permesso di guadagnarmi un vantaggio psicologico nei confronti degli altri, almeno ai blocchi di partenza. E´ così, nel lavoro, nella pallacanestro, negli affetti, negli affettati. Parto bello arrogante: poi magari non arrivo da nessuna parte (spesso, in realtà), però,  almeno per i primi ‘metri’ sono dioscescointerra. E così mi sento io mentre recupero una pila stilo nuova di zecca dal cassetto del tavolo. E´ di quelle giallo fosforescente Ikea, quelle che durano quanto un amplesso tra quindicenni, batterie che non vorresti mai avere su un isola deserta, magari dentro l’unica radio ricetrasmittente salvata da un naufragio. Ma qui siamo al sicuro, il Mar Tirreno è solo un ricordo lontano. La infilo nell’apposita fessura di un marchingegno al quale non so dare un nome che vada oltra ‘incursore liquido’. Chiudo lo sportellino delle batterie e, impugnandolo con maestria, inizio l’immersione. Aziono il pulsante solo quando l’estremità dell’incursore scompare nelle candide profondità della tazza di latte. Una volta premuto il pulsante me ne resto lì a guardare le increspature bianche che a mano a mano aumentano d’intensità e, vorticando, iniziano a convogliare nel centro creando un diabolico mulinello. Ma ecco ciò che stavo aspettando: l’effetto collaterale tanto agognato, la schiuma. Assisto a quella che sarà la genesi rapida della mia tela, una coltre spumosa ed abbondante che poi scolpirò con la mia arma. L’alta marea conquista la tazza e la schiuma comincia a lambirne i bordi minacciando di travolgere i sottili argini ed esondare spazzando via tutto e tutti. Mi fermo un attimo prima che il milkquake principii. Estraggo con un colpo secco l’incursore che, sempre vorticando, disegna nell’aria una scia bianca come fosse una Freccia Tricolore azzoppata. Guardo in basso. Laddove prima c’era placida e liquida calma ora c’è irregolarità, caos, insenature e rigonfiamenti lattiginosi. Mi sento come un dio malevolo che punisce Adamo&Eva cancellando il loro villaggio vacanze Eden per scaraventarli in pieno Ferragosto, nel reparto ferramenta del Mercatone Uno. Sadico abbestia… Ora che la tabula è rasa, posso ridisegnare imparando dagli sbagli del passato; ora che i peccati del latte sono mondati, potrò finalmente scegliere il destino che più mi aggrada.
La moka è pronta da un po’. Come il caricatore di una pistola che si riempie sempre prima, molto prima, di una resa dei conti. E’ una moka da due, indice e pollice si dirigono in prossimità del manico e cominciano ad esercitare una pressione stabile e sufficiente per agevolare la successiva fase di decollo. La tavolozza è pronta e il pennello Bialetti con il beccuccio in acciaio pure. La macchina del caffè rimane sospesa a mezzaria esattamente qualche centimetro sopra la tazza. La inclino lentamente e lascio che il primo rigagnolo di caffè faccia capolino dalla fessura in cima al beccuccio. Tutto è pronto. Dura poco, molto poco. Il tempo di battere le ciglia tre, forse quattro volte. Ripongo la moka nella fondina e me ne sto lì a fissare il mio operato. Non c’è soddisfazione, nessuna aspettativa o appagamento, soltanto la sensazione di aver assecondato le volontà di qualcun altro. Qualcuno che presto deluderà le tue gloriose aspettative.
 “et voilà” – dico, porgendole la tazza con entrambi le mani, come se reggessi il santo Graal
Allo stesso modo lei prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli e disse:
Amore ma cos’è questo sgorbio? Non assomiglia affatto a un cuore ...”
 Un’incazzatura cieca mi sale da dietro la nuca, la sento chiaramente mentre mi si dischiude nel naso e mi augura il buongiorno in bocca. A labbra serrate provo a contenerla contando mentalmente fino a tre.
 Uno
D..
“E certo, perché tu, superficiale come un iceberg, ti aspettavi il solito cuore a fumetti, quello stilizzato coi due archetti che collimano all’estremità. Quello rosso fluorescente che se soltanto fosse giallo sarebbe tale e quale alla ‘M’ di McDonald!” –  Osservo i suoi occhi dilatarsi dallo stupore. Come se fosse sull’orlo di piangere. Solitamente mi sentirei appagato così e la farei finita. Ma oggi no, oggi rifiuto l’offerta e vado avanti.
Io parlo di cuore vero, quello che c’è per davvero all’interno del mio petto. Ce l’hai presente? Quell’ organo cavo fibromuscolare di forma conica schiacciata? Evidentemente no, tu quando pensi a un ‘cuore’ non puoi che associargli la sacra iconografia di Hello Kitty vero? Pensi subito a quello stampato sulle magliette i  New York, I  London, I  Paperopoli, I  sticazzilandia. E no cara, è qui che ti sbagli. Il ‘cuore’ come lo intendo io è solo ed esclusivamente uno: quello con due solchi: il solco coronario e quello longitudinale, che divide il cuore nella parte destra e sinistra. Il tutto è comunque perfettamente disegnato nella tazza che hai sotto il naso”
Esausto, mi butto sulla sedia e resto lì a guardarla. Il mio sguardo è ricambiato. Soltanto che mi sta guardando dentro, come solo lei sa fare, e mi sento nudo sotto quello sguardo, e arrossisco come un liceale al quale hanno appena calato i calzoncini in aula mensa. Mi fa rabbia proprio perché  quelli che vedo non sono gli stessi occhi che poc’anzi hanno analizzato il mio disegno su schiuma. E´ proprio questo a farmi male, come se tutta quella fatica non fosse valsa a niente. Ma forse sono io che esagero, d’altra parte si tratta solo di uno stupido scarabocchio fatto nel latte. Forse sono solo completamente pazzo.
“Tu sei completamente pazzo. Lo sai vero di esserlo?” Si alza e viene verso di me con indosso la mia canottiera XXL di Michael Jordan, enorme per lei tanto da farla sembrare un barbapapà fluttuante.
“Mi hai davvero stufato! Sono stanca di assistere alle tue implosioni senza motivo. Stanca di essere la tua assistente sociale. Io me ne vado! Ciao stronzo”
Seguono cinque lunghi minuti in cui lei si cambia, e fa la borsa. Cinque minuti nei quali non riesco a fare niente se non restarmene lì immobile a sorseggiare caffelatte e a pensare tanto e confusamente
Solo dopo essersi infilata la giacca di pelle nera che le ho regalato il giorno del suo compleanno mi si avvicina. Per un attimo resto speranzoso, e già la mia mente se la immagina mentre mi butta le braccia al collo e mi chiede di dimenticare quanto appena successo..
Vaffanculo” – fa lei, a denti stretti, fissandomi con occhi rancorosi e implacabili
Arrivederci” – non mi esce nient’altro di bocca
La seguo giù, fino in garage. Mentre esce in retromarcia a bordo della sua seat marbella sento una piattezza vuota sulle mie labbra, quel posto dove, solitamente, mi beccavo tutti i sui baci d’addio. Per i primi due anni l’abitudine del bacio d’addio era stata parte delle nostre vite. Ora, mentre lei mi scivola dalle dita, capisco che quei baci mi mancano terribilmente. Mi mancano come la schiuma manca al mare, come  al latte manca il caffè. Mi mancano come l’aria, come quell’aria che da piccolo i miei polmoni cercavano riemergendo dalle acque mentre mia madre strillava il mio nome.



Commenti

Post più popolari

Goodreads