Bici e Ombre

Avevo una moglie, un figlio, un cane con tre zampe e un lavoro ben pagato ad aspettarmi a casa. Ma nessuna voglia di porre fine alla loro attesa. Non ancora, almeno..

Quando lei mi raggiunse sul terrazzo il sole era già sorto su Milano da un bel pezzo. Faceva caldo per essere metà settembre, e quando si sedette accanto a me mi trovò in mutande con una di quelle riviste insipide in grembo, di quelle che puoi trovare solo su un aeroplano, e un bicchiere di vino, ormai quasi vuoto, in mano.

Senza dire nulla prese dal tavolino la bottiglia ancora mezza piena di Clos Mogador gentilmente offerta dall’hotel e mi riempì il bicchiere. Fece lo stesso col suo e ne bevve un sorso.

Ci eravamo conosciuti cinque anni fa su un aereo, mentre con moglie, incinta di pochi mesi, stavo volando verso le nostre vacanze maltesi. Non ricordo granché del volo, se non che, anche quella volta, la rivista a mia disposizione era molto più che noiosa. Lei catturò subito la mia attenzione invece. Anche la prima volta che la vidi, mi stava versando del vino, in quell’occasione bianco e scadente, in un bicchiere di plastica. Non ricordo esattamente quali furono le circostanze che portarono mia moglie ad attirare proprio la sua attenzione quando cominciò ad avvertire degli spasmi dolorosi all'addome. La situazione non la imbarazzò minimamente, anzi, si dimostrò molto gentile e rassicurante. Si prese cura di lei e le lasciò il suo numero di cellulare nel caso, a Malta, avesse avuto bisogno di assistenza. Il padre della hostess, infatti, era ginecologo e viveva sull'isola a Saint Julian. La ringraziammo tanto per quelle gentilezze e mia moglie conservò quel biglietto nella sua borsa. Non chiamò mai, però, le fitte finirono lì, su quell'aereo. In compenso, di lì a poco, avrei chiamato io quel numero. In tante altre occasioni..

"Mi hai fatto male. Stanotte. Lo sai?" – Fui colto di sorpresa da quelle parole. Richiusi la rivista e la poggiai sul tavolino.


“Dici sul serio? A me sembrava proprio il contrario”


“Le tue parole intendo. Quelle mi hanno fatto male”


“Ad essere sincero non mi sembra di aver detto niente di strano”. Bevvi quel che rimaneva del vino sperando che la questione non andasse oltre. Mi sbagliavo.


“Quando scopiamo non parli mai, non ti piace parlare. Magari, sbuffi, ansimi ma parlare quello no. Invece, questa volta hai parlato”


“Ma cosa stai dicendo? Tu non stai bene” 


Lei non disse nulla, si alzò dalla poltroncina e si mise a guardare il panorama affacciandosi sul terrazzo, come per prendere le distanze. Rimase così per parecchi minuti, sembrò che i dintorni di Porta Nuova le avessero fatto dimenticare che esistessi. La assecondai e, chiudendo gli occhi, m'immaginai da un'altra parte. Lontano. Poi tornò alla carica.


“Dico solo che qualcosa sta cambiando nel nostro rapporto, è evidente. E io non voglio che cambi nulla altrimenti vorrò fare a meno di noi, di te”


La nuvola di pensieri nella quale mi ero rifugiato svanì in un baleno; tornai in me raccogliendo nel peggiore dei modi il suo tono minaccioso


“Ma che stronzate sono queste? Se ho parlato è perché avrò avuto qualcosa da dire. Ora nemmeno mi ricordo. Si può sapere che ho detto poi?”


“Non ha importanza cos'hai detto, è significativo il fatto che tu abbia parlato”


“No cazzo, ora voglio saperlo”


“Hai detto qualcosa tipo: 'ci sai proprio fare con quella bocca'..”


Mi guardai il petto nudo, indeciso sul da farsi. Afferrai un pelo che svettava più in alto degli altri, in prossimità dello sterno, e lo strappai.


“Ma che stronzate sono queste.. Eravamo lì, tutti e due, cose che si dicono. Non può averti dato noia una cazzata del genere!”


“Ma figurati, quale noia, quale fastidio! Non è questo il punto”


“E allora qual è? Ho violato un codice etico? Ci stava, stavamo scopando gesùcristo”


“Ma il problema sta proprio qui! Tu non dici mai una parola mentre facciamo sesso; oggi lo hai fatto. Qualcosa è cambiato e tu non lo vuoi ammettere”


“Questa è follia! Nemmeno avessi indetto una conferenza stampa per dichiarare a reti unificate che sei una gran bocchinara” – feci io stizzito e sempre più su di giri.


La cosa però non sembrò infastidirla, anzi, il suo umore cambiò in un lampo. Dapprima un sorriso fece capolino sul suo volto, poi cominciò a ridere. Rise sempre di più. Rise per dei secondi interminabili quasi alle lacrime io, invece, sentii montarmi una collera impetuosa dallo stomaco che si inerpicò fin su nella gola. Di proposito urtai la bottiglia con un piede e ne rovesciai quel che rimaneva del vino spagnolo per terra, poi, proprio mentre lei non riusciva a smettere di ridere, mi alzai dalla sedia e la raggiunsi in piedi sul davanzale del terrazzo. La presi per le spalle e le diedi uno strattone, poi la scansai bruscamente e, volgendomi verso l’orizzonte cominciai a urlare.


“LA SIGNORA QUI CON ME E' UNA GRAN BOCCHINARA!!!”


Cercò di tapparmi la bocca con la mano ma io le morsi il palmo e continuai a gridare. La vidi mettersi in ginocchio tenendosi la mano ferita, ma non avevo alcuna intenzione di fermarmi, intanto dalle camere accanto alla nostra qualche morto di sonno cominciò ad aprire le finestre e a curiosare. Sentì qualcosa insinuarsi fra l'elastico delle mutande, poi gridai ancora, ma questa volta, più che grida erano urla di dolore.


“STRONZA MI HAI MORSO L'UCCELLO!!!


Lei era lì per terra con le labbra sporche di vino i capelli scompigliati e un sorriso da bambina cattiva stampato in faccia. Non era mai stata così bella ed io, non l'avevo mai odiata così tanto. A torso nudo e con le mutande calate, la guardavo offeso: non riuscivo a calmarmi. Le sfilai accanto e rientrai in stanza infilandomi in bagno. Mi sciacquai la faccia e rimasi un po' a fissare l'immagine riflessa nello specchio. Non mi piacque. Quando tornai in stanza lei era sempre sul balcone, seduta in terra e con una sigaretta in bocca, mi rivestii in gran fretta, presi le mie poche cose e andai via. Fu scendendo verso il piano terra dentro quell'enorme ascensore che maturai la decisione di non rivedere Giuliana mai più. Nemmeno questo, però, sembrò calmarmi.


Avevo una moglie, un figlio, l'abbonamento a Sky e una Fender Stratocaster Vintage del 1965 ad aspettarmi a casa. Ma sempre poca voglia di porre fine alla loro attesa.

Pedalai a casaccio per ore prima di decidermi e impormi una meta. Una volta arrivato a destinazione mi misi a cercare una rastrelliera dove lasciare la bicicletta ma le poche a disposizione erano già tutte piene. Arrendevole ed indolente, finii con l'abbandonarla contro un muro, senza nemmeno prendermi la briga di legarla col catenaccio. Senza rimorsi di coscienza, mi concessi una passeggiata ai Giardini di Villa Reale, uno dei posti più belli di Milano. Qui ho insegnato a mio figlio ad andare in bici ed è qui che mi rifugio con Rudy al guinzaglio quando voglio pensare o semplicemente starmene solo. Mi ero sempre sentito fortunato ad abitare qui vicino, il quartiere era molto bello ed erano in pochi quelli che potevano permettersi una casa o anche solo un affitto da queste parti. Ma nella mia vita i soldi non erano mai stati un problema. Il vero problema era non essere 'abbastanza'. Niente di quello che avevo raggiunto e accumulato finora sembrava aver significato qualcosa per me. Ero decisamente bravo nel mio lavoro di procuratore sportivo ma non ero il più bravo, nemmeno vicino ad esserlo. Anni fa ero stato un promettente ciclista, ma un infortunio al ginocchio mi impedì di coltivare il mio sogno di professionismo, cosa che per molti sarebbe stata un obiettivo raggiungibile. Anche l'etichetta discografica che avevo fondato con uno dei miei migliori amici si era rivelata un autentico flop. Non mi restava che la mia famiglia. Adoravo i miei genitori e soprattutto mia moglie e mio figlio, avrei ucciso per loro. Soltanto che ero un pessimo marito e un padre troppo preso dai suoi problemi e dalle sue mille insoddisfazioni per crescere il figlio nel migliore dei modi. Era un supplizio insopportabile bruciare di aspettative, di ambizioni e non avere legna a sufficienza per far crescere e nutrire questo fuoco. Probabilmente era per questo che 'sbandavo', che trovavo sollievo nel vino, nel tradimento continuo e reiterato, nell’adulterio dell’anima. La mia routine quotidiana era talmente cloroformizzata dal portarmi, di frequente, alla deriva. Una 'deriva' febbricitante che per qualche attimo mi strappava ad una realtà inadeguata e scomoda per portarmi su sentieri sconosciuti e rischiosi ma forse proprio per questo più vividi e stimolanti. Solitamente, una volta passata la febbre, poi come una qualsiasi altra creatura di sangue caldo e nervi, passavo alla mia solita occupazione: la mia vera, usuale, monotona, vita.

Sopraggiunse la fame, così mi comprai un sacchetto di patatine al formaggio da un venditore ambulante e mi andai ad accomodare su una panchina. La stessa di sempre, quella dove mi siedo quando voglio starmene in pace a leggere il giornale o semplicemente a guardare Rudy passare in rassegna qualsiasi tipologia di merda presente sul suolo pubblico. Questa volta avrei avuto compagnia: una bambina, infatti, già vi sedeva assorta, intenta a pasticciare un album colorato. La raggiunsi e mi misi accanto a lei. Per un momento la guardai.


“Vuoi una patatina?”


Niente. Anche per lei sembrava che io non esistessi. Poi, a un tratto, con mio sommo stupore si girò verso di me, mi guardò negli occhi e fece cenno con la mano di avvicinarsi. Era davvero graziosa, biondissima e con due occhioni verdi che le incorniciavano un viso tondo e gentile. Non volli deluderla e stetti al gioco, mi abbassai verso di lei e aspettai che parlasse. Si avvicinò al mio orecchio e coprendosi la bocca con una mano, bisbigliò qualcosa.


“Ah, ok” - dissi un po' perplesso.


Qualche attimo dopo il mio telefono vibrò


“Scusami un momento”


Estrassi il cellulare dalla tasca dei pantaloni e guardai lo schermo convinto fosse un messaggio di mia moglie:


- La stanza è pagata fino a domani mattina. Non farti aspettare che la voce si è sparsa: fuori dalla camera c'è già la fila.. Giuliana -


“Arianna! Disgraziata, è da un pezzo che ti cerco: vieni subito qui!”


La voce disperata di quella che sembrò essere la madre, richiamò la bambina che a grande velocità, raccolse le sue cose, si alzò e se ne andò via senza più rivolgermi una parola. La osservai allontanarsi, finché non finì tra le braccia della madre, provata ma sollevata di aver ritrovato la sua bambina. Le guardai un'altro po', poi tornai alle patatine al formaggio.


Qualche ora e qualche altra e menzogna dopo, mi trovavo di nuovo sul terrazzo dell'hotel. Il sole era tramontato da un pezzo ma non l'incazzatura per il furto della mia bicicletta. Giuliana dormiva nuda sul letto, stanca e appagata o almeno era quanto speravo. Questa volta ero stato zitto, attento a non emettere il minimo suono. La guardai, dal vetro, minuta, ma ben proporzionata, con lunghi capelli neri che le coprivano tutta la schiena. Sentii il bisogno di raggiungerla, di prenderle una manciata di capelli, di arrotolarmeli nella mano e di annusarli. Non lo feci, rimasi lì a guardarla ancora per qualche istante. Poi tornai a sedermi sulla poltroncina dove la mia mattinata era cominciata. Le macchie di vino sul pavimento erano sparite, in compenso però, quell'insipida rivista era ancora lì sopra al tavolino. Questa volta non provai nemmeno a raccoglierla. Poi, chissà perché, la mia mente tornò a quella panchina nel parco, a quella bambina. A quanto mi aveva sussurrato nell'orecchio.


- quando voglio, divento invisibile - aveva detto.


Provai anch'io a dirlo:


“quando voglio, divento invisibile”


Mi sembrò di sentirmi subito meglio.






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