Pasta fatta in casa


Mi ero messo nei guai. Con ingegno e in completa autonomia, ma pur sempre di guai si trattava. L'aria portoghese, a un battito di ciglia dal mezzogiorno, aveva già reso il clima incandescente, tuttavia i miei denti non volevano smettere di battere. La situazione in cui mi trovavo era pressappoco la seguente: sospeso dalla parte sbagliata di un ponte, non sul lato riservato al passaggio pedonale, bensì oltre la ringhiera, sul versante ‘ancora-un-passo-e-poi-giù’. Il mio outfit minimalista, scalzo, torso nudo e un paio di jeans slim fit a conferirmi una ricercata aerodinamicità; le spalle e la schiena appiattite contro la gelida struttura metallica, le braccia larghe e tese, e le mani avvinghiate al reticolato sotto la balaustra. Tutto il peso del corpo concentrato nei talloni,
appoggiati su pochi centimetri sporgenti di un’impalcatura in ferro. Oltre i miei alluci, il vuoto e, dieci metri più sotto, lo scorrere impetuoso del fiume Douro mentre, tutto intorno, la decadenza malinconica di Porto mi avvolgeva stordendomi quel tanto che bastava ad ingannare le vertigini.

Ero in città da una settimana. Nei miei piani, ci avrei dovuto passare un paio di giorni per poi noleggiare un’auto e dirigermi a sud nelle Algarve dove avrei avrei fatto gli occhi dolci all’Oceano e preso qualche lezione di surf. Ma, al solito, le cose tendono a sfuggirmi di mano così, per qualche strano sortilegio ero ancora bloccato a Porto. Pronti via, mi ero disciplinatamente affidato alla guida turistica seguendo il più classico degli itinerari turistici: passeggiata dal centro della città, fino a Passeio Alegre, dove il fiume incontra l’Atlantico; una bella mangiata al Mercado do Bolhão; il Museo di Arte Contemporanea della Fundazione di Serralves e i 240 scalini della Torre dos Clérigos e li mortacci loro e di chi li ha fatti così ripidi. Il giorno in cui avrei dovuto andarmene, però, cominciò la lenta deriva, dovuta probabilmente ad un certo feeling malato con quella strana città. Non so dire con esattezza cosa mi portò fuori rotta, forse il fatto che persi la guida, forse la magia di quelle centinaia di abitazioni abbandonate o forse quei vicoli stretti fatiscenti e malconci che davano al panorama generale una sorta di patina suggestiva ma al contempo, scalcinata, liquida, come il volto di una bella ragazza al mattino quando, la sera precedente, si è dimenticata di struccarsi. Sta di fatto che mi dimenticai della prenotazione della macchina e cominciai a ciondolare da un quartiere all’altro, dilatando e allungando le mie giornate ed entrando in molte di quelle case abbandonate per studiarne le pareti sgretolate, le storie appese sui muri, nascoste dalla carta da parati ammuffita. Ieri poi, in una di quelle ipnotiche esplorazioni nella zona di Ribeira, sbucai fuori da un rudere come un topo dalla paglia e trovai davanti a me l’immensità fredda e metallica del ponte Dom Luis I. Lo avevo già percorso a piedi altre volte, in direzione di Vila Nova de Gaia e dei suoi locali in riva al fiume, ma questa volta il suo richiamo fu diverso, più intimo. Tra i numerosi ponti di Porto, il Dom Luis I è il più noto e quello di maggior impatto. Costruito sul fiume Douro da Teofilo Seyrig e un allievo di Eiffel, collega la sponda della città con i moli di Gaia ed è costituito da due impalcati in ferro: quello superiore, dove passa la metropolitana, a oltre sessanta metri di altezza e quello inferiore destinato a macchine e pedoni a dieci metri dal fiume. Durante il tragitto sull'impalcato inferiore mi fermai a guardare, assieme ad altri, alcuni ragazzini che, fra le ovazioni e grida di stupore, si tuffavano senza paura nelle acque del fiume. Fu in quel preciso istante, mentre un ciccione in accappatoio e zoccoli, si lanciò nel Douro riemergendo fra gli applausi degli astanti, che decisi di compiere, l’indomani, il medesimo folle gesto. Per farlo, mi sarei avvalso del prezioso aiuto di José, il mio amico brasiliano che mi stava dando alloggio in città. Come in molte altre occasioni, però, i buoni propositi si scontrarono con la dura realtà e, in quel preciso istante, quel volo di ‘soli’ dieci metri mi sembrò allettante quanto una seduta da un dentista col parkinson. Intanto, una dozzina di persone mi aveva già praticamente circondato, con cellulari e fotocamere alla mano, pronte per immortalare un gesto che, nel bene o nel male, sarebbe stato social-mente rilevante. Non potevo ritornare sui miei passi. Mi concessi ancora qualche istante, chiusi gli occhi e provai a pensare a qualcosa di bello, giusto per calmarmi un po’. Ma non mi venne in mente nulla, soltanto un vuoto allo stomaco, come se niente di bello mi fosse mai appartenuto veramente.
Il sole mi bruciava spalle e petto, con estrema lentezza girai il collo a destra e sbirciai da un occhio, giusto in tempo per scorgere Josè sulla riva di Ribeira con in mano il fagotto con le mie scarpe e la maglietta. Ero pronto ma sentivo qualcosa dentro la mia testa che stentava ad allinearsi col resto del corpo come se quella che stavo vivendo non fosse la realtà. Pensai all'Italia, a casa mia, alle poche persone che amavo infinitamente e a quella a me più cara, che stava per morire, inchiodata dall'esito impietoso di un esame medico. In fondo, la vacanza in Portogallo era stato un semplice pretesto per fuggire. La via più facile per lasciarsi il dolore alle spalle.
Una goccia di sudore mi solcò il viso, o forse fu una lacrima. Avevo paura. Non di lanciarmi giù da un ponte, piuttosto la paura di un'imminente e dolorosa perdita che avrebbe cambiato per sempre gli equilibri della mia esistenza. Per qualche giorno Porto e la sua anima sgarrupata mi avevano ingannato, ma la 'paura' non ha bisogno di un GPS per scovarti. E così era successo. Mi fu finalmente chiaro che ero lassù per incontrare le mie paure, al costo, altissimo, di cambiare per sempre. Dopotutto ero stanco di continuare a vivere in quella sorta di sospensione temporale inconcludente, come un tunnel di luci al neon e ombre allungate che puoi solo imboccare in un senso perché tanto indietro sai di non poter tornare.
Fu in quel momento, in procinto di tuffarmi dal ponte Dom Luis I, che accettai la sconfitta. Avrei perso qualcosa, avrei vomitato dolore, avrei pianto il mare, ma sarei andato avanti, un po' come si fa nella scrittura quando, stanchi di un lungo periodo, si mette un punto e si va a capo
Alle mie spalle, potevo sentire il borbottio della gente impaziente di assistere al tuffo, eppure non li sentivo veramente. Quando i miei occhi si schiusero, quello che videro non fu il fiume, non fu Porto, nemmeno le imbarcazioni all'orizzonte. No, quello che videro furono soltanto, in lontananza, luci al neon, deboli e balbettanti con quel ronzio elettrico di sottofondo che ricorda tanto una zanzara nell'orecchio. Mi feci forza e mossi il primo passo in quel tunnel tetro.
Contemporaneamente, staccai la schiena dall’impalcatura metallica del ponte e, tenendo le braccia perpendicolari al corpo, mi piegai sulle gambe, mi diedi una prodigiosa spinta in avanti e saltai nel vuoto, lasciando che fosse il fiume a decidere se lasciarmi andare o se abbracciarmi, portandomi con sé.



Le birre rigorosamente Super Bock erano ghiacciate. Aspettammo un po' prima di berle. In quei lunghissimi minuti nessuno disse niente. Più che altro ci guardavamo in giro osservando la clientela entrare e uscire da quella cupa e fascinosa locanda.
Poco lontani da noi, tre spagnoli stavano parlando fra loro sorseggiando del porto rosso dentro calici da quattro soldi. Uno di loro, il tizio piccoletto, mi sembrò di conoscerlo. Mentre la barista ci servì un piattino con olive e lupini mi accorsi di non riuscire a staccargli gli occhi di dosso. Poi Josè mi toccò il braccio.
Insomma? Non mi hai ancora detto che cosa hai provato oggi quando ti sei lanciato dal ponte?”
In che senso?”
Nel senso... che cosa hai sentito, dentro di te?”
Sapevo bene cos’era successo. Mi presi comunque del tempo. Tornai a fissare quel volto noto, il nanerottolo dai capelli lunghi e lisci. Lo vidi armeggiare con un bastone per i selfie e mi tornò alla mente dove l'avevo visto: qualche ora prima, alla stazione di São Bento intento a contrattare animatamente per quell'arnese con un venditore ambulante.
Degli altri due, quello più giovane e riccioluto assomigliava al cantante degli Zen Circus ma dai nitriti che emetteva dubitai che avesse le stesse proprietà canore. Il terzo era di spalle, ne intuivo ben poco. Sbucciai un lupino, me lo infilai in bocca e ripresi il filo del discorso.
Ho rivisto una scena della mia infanzia”
Davvero? e quale?”
Niente, ero seduto con mamma al tavolo di cucina mentre lei faceva la pasta fatta in casa”
Presi il bicchiere e cominciai a bere, forzando un'altra breve pausa. Intanto, anche il terzo spagnolo si era girato. Per quanto non molto anziano, era quasi completamente calvo ma con tatuaggi che spuntavano dal collo e lo ricoprivano del tutto, pelata compresa, ad eccezione della faccia. Indossava anfibi neri Dottor Marten's e pantaloni talmente attillati da far pensare che i tatuaggi fossero sbucati dal colletto della maglia per prendersi una boccata d'ossigeno.
E poi, nient’altro?”
Come scusa?”
Nient'altro dico? Solo lei che tirava la pasta a mano?”
No, cioè si… Ho anche chiesto a mia madre di passarmi uno dei due mandarini che stavano sul tavolo”
Un mandarino?!”
Si, mi andava”
Te l'ha dato?”
Non solo, li ha sbucciati entrambi e ne ha assaggiato uno spicchio ciascuno. Poi mi ha guardato e mi ha detto ‘prendi questo: è quello più dolce'…”
Tutto qua?”
Tutto qua”
E io che pensavo che in questi casi, ti passasse tutta la vita davanti agli occhi”
Ma infatti, è esattamente quello che è successo”


Mentre gli ultimi sorsi di birra sparivano nelle nostre gole, osservammo gli spagnoli stringersi stretti per farsi una foto corale con l'ausilio del selfie stick. Il flash del cellulare si accese per qualche secondo, illuminando il locale. Poi, fu di nuovo buio.


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