Ventuno

Anche senza fare nulla di trascendentale, la serata era filata bella liscia. Una pizza coi vecchi amici e poi una passeggiata all’aria fresca parlando di quello che eravamo, di quello che saremo voluti diventare e che puntualmente non siamo diventati. Ma a noi stava bene, i sogni, in fondo, si chiamano così proprio perché è difficile afferrarli, altrimenti li chiameremmo 'obiettivi’, ‘traguardi’, e la magia verrebbe meno. Solo che, come sempre quando stai d’incanto, i tempi si erano dilatati a tal punto che, la mezzanotte era ormai un vago ricordo. Ci salutammo frettolosamente senza sapere quando ci saremmo rivisti ancora, consapevoli che sarebbe stato più semplice radunare le sette sfere del drago Shenron che ritrovarsi tutti assieme.

In sella al motorino guadagnai la strada di casa, mentre la notte fiorentina mi accompagnava tiepida e discreta. Avevo promesso a Delia che non sarei rincasato troppo tardi che l’indomani avevamo in programma di andare a Livorno a mangiar pesce. Quando arrivai parcheggiai silenziosamente e senza sfilarmi il casco mi avvicinai all’ingresso. Girai le chiavi nella serratura con una delicatezza inusuale, come se mi stessi giocando la finale mondiale de L’allegro chirurgo. Richiusi piano la porta e rimasi immobile nell’oscurità ad annusare l’aria aspettando che gli occhi si abituassero al buio. Dalla camera non giungeva alcun rumore, e la tv era spenta. Buon segno. Il piano era semplice: svestirsi lentamente in salotto, andare in camera e infilarsi nel letto furtivamente, come se pesassi soli 21 grammi. A metà dell’opera però un crampo allo stomaco mi fece capire che il mio intestino aveva altri piani. Raggiunsi a stento il bagno in mutande e maglietta e mi chiusi dentro. Mi sedetti sulla tazza del cesso appena un attimo prima di evacuare. Fu doloroso e liberatorio, e a occhio e croce furono ben più di ventun grammi. Avevo esagerato con l’olio piccante e questa era la giusta punizione. Ebbi le forze a malapena per alzarmi e, solo quando tirai lo sciacquone, mi accorsi guardando nel riflesso dello specchio del bagno, di avere ancora il casco addosso. Soffocai a stento una risata isterica, tappandomi la bocca con le mani.

Per qualche istante, rimasi con l’orecchio teso e il buco del culo dolorante. Nessun movimento, forse non avevo svegliato nessuno. Mi rimirai allo specchio col casco sulla crapa. Non ero poi così male. Me lo tolsi e mi concessi un bel bidet con un getto tiepido e contenuto, l’idea di una scrosciante doccia era purtroppo off limits. Dopo essermi asciugato andai finalmente in camera. Delia era lì, bella e addormentata. Mi infilai nel letto con delicatezza ectoplasmica e chiusi finalmente gli occhi. Ce l’avevo fatta!

“dove sei stato?”

Nella mia testa Ray Allen scagliò una tripla in step back sulla sirena di Gara 6 ed io ero lì in panchina assieme a Tim Duncan sperando che la palla non entrasse. Ciuff. Solo rete.


“Hey. Ma allora sei sveglia?”


“Per forza, hai fatto un casino in bagno”


“Scusami, pensavo d'aver fatto piano”


“dove sei stato?”


“lo sai, coi ragazzi”


“Fino alle due?”


“Ma si dai, è da ‘na vita che non ci vediamo. Siamo rimasti a parlare un bel po’ e abbiam perso la cognizione del tempo”


“Si, si. E perché ti sei fiondato in bagno appena sei arrivato?”


“cosa intendi?”


“Guarda che ho sentito benissimo che ti stavi lavando. Hai scopato?”


“Ma che cazzo dici? Mi scappava da cacare e poi mi son fatto un bidet”


“Certo come no?”


“Guarda, facciamo così: la prossima volta che rincaso e mi scappa da cacare ti chiamo così poi mi fai da palo in bagno mentre mi sciacquo le palle. Ok?”


“Ma vaffanculo va”


“Ma vaffanculo te”


Scalciai nel letto come Sandra e mi tirai su con un colpo di reni alla Yuri, il signore degli anelli. Alquanto alterato, afferrai una coperta dall’armadio e me ne andai in salotto. Lei fece spallucce e continuò a far finta di dormire. Mi buttai sul divano con la coperta e provai a prendere sonno. Fu un vano tentativo, ero troppo nervoso per riuscirvi e poi il culo mi bruciava da morire: sembrava che ai bordi del mio ano stessero festeggiando il capodanno più pirotecnico della storia. Mi tirai su, accesi la luce della stanza e dalla poltrona accanto raccolsi la borsa di Delia. Rovistai fra le sue cose fino a quando non trovai le sigarette. Ci aveva messo sei mesi a smettere di fumare e un weekend a Berlino con Barbara, la ragazza di mio fratello, per ricominciare. Assieme all’accendino, ne presi una, per una volta contento dei suoi vizi, e cominciai a fumare. Inspirai ed espirai a pieni polmoni, gonfiando con la bocca anelli di fumo che poi disperdevo per la stanza. La borsa vibrò e il signore degli anelli non resistette alla tentazione di prenderle il telefono e dargli ‘na sbirciatina. Sullo schermo lessi: ‘Estetista ti ha inviato un messaggio’. Guarda premurosi, pensai, che si preoccupano della tua peluria anche a notte fonda. Col dito sbloccai il telefono e mi feci gli affaracci suoi.


^Hey, dormi?^


Non ero un tipo geloso, non lo ero mai stato. Ma imparavo in fretta. Controllai la cronologia della chat. Quello era l’unico messaggio esistente, ma questo non voleva dire che non li avesse cancellati lei. Pensai di rimettere il telefono nella borsa e andarmene a letto. Avrei chiesto lumi a Delia l’indomani mattina. Ma come avrei potuto giustificare il fatto che avevo razzolato nelle sue cose? Forse era meglio fare finta di niente. Stavo quasi per farlo quando le dita mi presero in ostaggio e cominciarono a frullare su quel maledetto schermo touch.

^si, non riesco a dormire^

Estetista sta scrivendo..

^riesci a liberarti? Ho voglia di te, ora. Subito^


Una fitta allo stomaco mi piegò praticamente in due. Mi ero sorbito negli anni tutta quella insensata gelosia, tutte quelle litigate e poi, la vera stronza era lei. Mi alzai di scatto facendo volare la sigaretta ancora accesa sul pavimento, volevo tornare in camera e prenderla a schiaffi e costringerla a dirmi chi fosse lo stronzo con cui aveva una tresca. E da chissà quanto tempo poi! Provai a calmarmi e a riflettere. In fondo potevo giocarmi l’occasione di scoprire chi fosse l’infame. Magari lo avrebbe coperto in ogni modo oppure, cosa non impossibile, avrebbe inventato una clamorosa scusa con dei giri di parole da pifferaia magica. Di quelli che normalmente mi facevan cambiare idea più per sfinimento che per reale convinzione. No, questa volta l’avrei lasciata fuori. Mi sarei finto lei e sarei stato al gioco.

^ok dove?^


^vediamoci da me, non c’è nessuno^


Dovevo giocarmela bene o avrei perso il pesce all’amo


^no, stanotte no. Vediamoci vicino casa mia. Facciamo davanti Horas Kebab^


^Ok. Dammi 21 min^


Il vecchio Horas era un tipo discreto e uno stakanovista come pochi: il suo sfamatoio non chiudeva mai, di giorno rifocillava gli infelici e la notte i reietti. A me e Delia piaceva il kebab, e al kebab piacevamo noi. Ovviamente arrivai con discreto anticipo ma decisi di non entrare: Horas mi conosceva bene e non volevo farmi vedere in quello stato di agitazione. Mi appostai dietro una Ford Fiesta parcheggiata dall'altra parte della strada e mi sedetti sul marciapiede, con una visuale perfetta del ristorante. Il piano era sostanzialmente quello di individuare il bastardo e poi certificare le sue colpe chiamandolo al telefono col cellulare di Delia. A quel punto, mi sarebbe bastato scorgerlo estrarre il telefono per incastrarlo. Poi non so cosa avrei fatto, mi sarei lasciato trasportare dalle emozioni, il che voleva dire tutto e niente. Si trattava del mio secondo appuntamento al buio. Il primo, neanche a farlo apposta, un sacco di tempo fa, quando un amico organizzò un’uscita a quattro alla quale conobbi proprio Delia. Ci eravamo scelti poco più che ragazzi con la voglia di crescere assieme, e con la consapevolezza di non essere ancora pronti, troppo insicuri e deboli per arginare le complessità della vita. Sembrava una cosa destinata a durar poco e invece la nostra comune insicurezza diventò presto il nostro carburante. Questa energia, però, negli ultimi tempi si era palesemente affievolita. Le nostre personalità avevano acquistato contorni ben definiti, eravamo maturati, migliorati, e forse quel bisogno di ‘noi’ si era smorzato proprio col progredire delle nostre individualità. Abituati a influenzarci a vicenda a ribaltare le nostre certezze e ad accogliere le lacune dell'altro come germogli da raddrizzare e innaffiare, avevamo raggiunto una stasi indolente accontentandoci di una consolidata e confortante routine. O forse ero solo io quello che si stava accontentando. Ancora poco, pensai, e l’avrei scoperto.


Dopo un’attesa che parve interminabile, vidi un uomo camminare verso il kebabbaro. Deglutii a fatica e strizzai gli occhi per mettere a fuoco. Il tizio infilò dentro il negozio senza tentennamenti. Era solo uno dei tanti avventori-fattoni in trasferta notturna. Mi rilassai un attimo e feci partire un bello sbadiglio. La mascella non fece in tempo a serrarsi che dall'angolo della strada sbucò un’altra persona. Il tipo, con un cappello da baseball girato al contrario, si fermo esattamente sotto le luci gialle al neon dell' Horas Kebab. Sbattei ripetutamente le palpebre sperando che fosse un’allucinazione da stanchezza. Invece no. Era proprio Carlo, mio fratello, con le mani in tasca e l’aria di chi stesse aspettando qualcuno. Il cuore cominciò a battere all’impazzata e la salivazione mi si azzerò del tutto. Nonostante il cervello in pappa, trovai le forze per estrarre il telefono di Delia e con la mano tremante composi il numero. Terrorizzato da quel che sarebbe successo dopo, restai lì, immobile, in attesa che il suo telefono suonasse ‘a morto’. Il cellulare raggiunse il suo destinatario e cominciò a squillare. Passarono molti secondi ma dall’altro lato della strada Carlo non si mosse di un millimetro. Un barlume di speranza si fece strada in me. Forse l’infame non era lui, forse era solo una spiacevole coincidenza. Ormai il telefono stava trillando a vuoto da un’eternità: potevo in buona sostanza ritenere mio fratello estraneo ai fatti. Per scaricare tutta la tensione improvvisai un po’ di stretching prendendomi la testa fra le mani e abbassandola verso le ginocchia. Feci appena in tempo a vedere un’ombra allungarsi su di me, poi, mio fratello mi saltò addosso come una furia.


Afferrandomi per il bavero della giacca mi tirò su bloccandomi fra sé e la Fiesta. Mi strattonò con una forza tale che entrambi i piedi si sollevarono dal marciapiede. Con una ginocchiata alla bocca dello stomaco mi scaraventò sul cofano dell'auto. Intanto, Horas e il ragazzo di prima erano usciti sotto l'ingresso incuriositi da quel baccano e stavano assistendo alla scena. Carlo tornò alla carica e tentò di colpirmi con un pugno in faccia ma questa volta lo bloccai con l'avambraccio e risposi con una gomitata all’altezza della sua spalla che lo fece indietreggiare dolorante per qualche metro. Mi stupii della mia agilità e per un attimo desiderai che anche Delia fosse lì ad assistere a quello scontro fratricida. Carlo approfittò di quella mia stupida esitazione per finirmi con una fatality: una doppia testata in pieno volto che mi fece cadere gambe all'aria sull'asfalto col naso rotto e sanguinante. Poi parlò.


“Figlio di puttana, da quant'è che va avanti 'sta storia con Barbara?”


“Barbara? ma che cazzo dici Carlo”


Guardò verso il cellulare in terra. “ti sei fatto un altro numero per mandare avanti 'sto teatrino, ma stasera vi ho sgamati, gliel’ho preso di nascosto e ti ho fregato”


Provai a parlare ma quello che mi usciva dalla bocca erano solo gorgoglii. Il sangue mi stava scendendo dal naso direttamente in gola. Sputai in terra per non morire soffocato e ci riprovai.


“Quello è il telefono di Delia. Ho fatto la stessa cosa col suo..”


“Cosa!?” 


Carlo, cambiò espressione, e di colpo sembrò molto confuso: mise entrambi le mani sui fianchi e cominciò a trotterellare sconsolato.



“Ma allora perché te ne stavi nascosto cazzo?!”


Stavo per parlare quando, a qualche metro da noi, il cellulare di Delia raggiunse finalmente il suo destinatario ed una voce metallica fece capolino dall’altra parte del mondo”


*pronto? Pronto Delia, tesoro?*


Carlo fece per raccoglierlo ma , con forze che non pensavo di avere, lo anticipai strisciando in terra e afferrandolo prima di lui.

“Pronto?”


*Pro.. Pronto?* 


La voce femminile dall’altro capo fu alquanto sorpresa di sentirmi.

“Barbara, sei tu..?”


*Luca? Ma perché mi stai chiamando dal telefono di Delia..*


Riattaccai. Horas, intanto, mi aveva allungato una scatola intera di tovaglioli di carta. Mi tamponai il sangue dal naso e dalla bocca meglio che potevo mentre Carlo mi aiutava a rimettermi in piedi.


“ti ho spaccato la faccia, scusa, io..”


“Tranquillo. Fuori sto benone, è dentro che sono a brandelli”


“Già”


“Hai fame fratellino?”


“Un po'”


Come sforzandosi di leggere fra i nostri pensieri, Horas si avvicinò:


“Faccio venire un’ambulanza ragazzi?”


“No, facci uscire due kebab piuttosto. Uno senza salsa piccante però!”


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