La quiete e il cappuccio

(pubblicato su Rivista Waste il 10/11/2020)

«Che cosa ti piacerebbe fare? In questo momento dico, potendo decidere, che cosa ti andrebbe davvero?».
Con questa domanda ruppe un silenzio che durava da un bel po’. Era una anonima domenica d’autunno, con quel clima che non si sa mai bene come gestire: abbastanza caldo da non coprirsi più di un tanto, ma comunque abbastanza freddo da non poter stare in maglietta.
Se ne stavano seduti su di un sudicio marciapiede, lui e lei, davanti a una fabbrica di condizionatori, la loro azienda, che nel giro di un paio di giorni sarebbe stata dismessa e li avrebbe lasciati più o meno come in quel momento, col culo per terra. Si erano dati appuntamento lì un’ora prima: volevano entrambi piangersi un po’ addosso e sfogarsi l’un con l’altra, ma la verità è che non avevano un granché da fare. Non c’era mai stato nulla di fisico tra di loro; avevano davvero poche cose in comune, e forse era proprio per questo che riuscivano a tollerarsi così bene.
Con le mani il ragazzo fece scivolare il cappuccio della felpa sulle spalle. Mani ben curate, con dita lunghe e affusolate che tradivano la sua insofferenza per i lavori manuali. I capelli corvini avevano già lasciato spazio a qualche traccia di bianco. Un volto nel complesso abbastanza anonimo, a eccezione di quella barba hipster ben acconciata, e di una cicatrice di tre centimetri sul sopracciglio destro, gentile regalo di un gomito altrui durante una rissa di una notte di mezza estate.
«Mi masturberei».
«Dai, sii serio!».
«Lo sono».
«Really?».
«Yep».
«Perché non lo fai? Se vuoi mi alzo e vado a fumarmi una sigaretta da qualche altra parte».
«Tu non fumi».
«Ma tu sì, quindi prima che comincino gli atti osceni in luogo pubblico potrei scroccartene una. Non è così?».
«Già».
«Quindi? Lo vuoi fare!? Guarda che non ci sono problemi».
«No, grazie».
«Ma perché? Ti imbarazzi?».
«No, no, il problema non è l’imbarazzo. C’è una certa confidenza fra noi. È soltanto che… mi andava di farlo un attimo fa, quando me l’hai chiesto».
Lo disse muovendo su e giù gli indici e medi paralleli con entrambe le mani alzate, coi palmi in avanti, enfatizzando l’ultima parte della frase.
«Ora non è più ‘quel’ momento lì, ci siamo già spostati oltre e poi ti ho già spoilerato. Vuoi mettere se tu non mi avessi fatto quella domanda e io me lo fossi tirato fuori, così, all’improvviso?».
La mimica con cui il ragazzo accompagnò quell’uscita la fece esplodere. Rise così forte da spaventare una cornacchia che, appostata sul tetto del capannone, spiccò il volo e si allontanò in direzione del vento, quasi a rincorrere le nuvole, ormai alte sopra la città.
Lei si mise a cercare qualcosa nella borsa; lui a giocherellare con il cellulare. Si era creato quel silenzio pregno di aspettative tipico di una discussione che sta virando dal faceto al serio. Passando accanto a quei due, si sarebbe quasi potuto sentire il peso degli enormi desideri sospesi in quella quiete. Un altro stormo di uccelli si alzò in volo dal tetto di un edificio adiacente. Lo fecero molto rumorosamente: come se qualcosa li avesse minacciati.
«Cosa stai leggendo?». Era sempre lei a iniziare con le domande, lui perlopiù aspettava. Aspettare era la cosa che gli riusciva meglio.
«Se fumetti e riviste non valgono, direi un bel niente».
«No che non valgono».
Lui stava per dire qualcosa ma un altro suono in lontananza ruppe l’incantesimo. Quel grido stridulo durò un paio di secondi e aveva qualcosa di umano, ma poteva anche essere il verso di qualche strano animale.
Si guardarono negli occhi, entrambi con le pupille dilatate dallo spavento, indecisi sul da farsi.
«Cos’era?».
«Non lo so».
«Dici che dovremmo andare a vedere?».
Il ragazzo non rispose subito; invece, girò la testa in direzione della strada, donde era giunto quello strano suono, come per accertarsi che si fosse trattato soltanto di una vaga e sfumata allucinazione.
«Nah, tranquilla. Piuttosto, tu invece cosa stai leggendo?».
Non era affatto tranquilla. Ma apprezzò il tentativo del ragazzo di distrarla dai suoi presagi. Con entrambe le mani cercò e trovò il ciondolo che portava sempre al collo, un cavalluccio marino d’argento, regalo della nonna. Lo strinse forte fra pollice e indice della mano destra fino a farsi diventare violacei i polpastrelli. Poi sollevò il maglioncino di cotone grigio tortora che indossava e fece scomparire la collanina. La sua pelle era morbida e lattescente, a contrasto con i lunghi capelli neri e i grandi occhi color nocciola che conferivano dolcezza a un viso tondo e pulito. Era dannatamente bella ma lei sembrava l’unica a non saperlo e questo, inevitabilmente, la rendeva ancora più attraente. Sporse un poco il labbro inferiore da quella bocca che sembrava disegnata da un pittore fiammingo e soffiò su una ciocca di capelli appollaiata sopra la sua fronte.
«Ho finito qualche giorno fa ‘Narciso e Boccadoro’».
«Gran bel libro!».
«Si, è stupendo… e ora sono indecisa su cosa leggere».
«Tipo?».
«Non lo so…».
«‘Non lo so’? è il titolo del libro che vuoi iniziare?».
Gli sorrise con benevolenza.
«Vorrei leggere ‘La grande fame’ di John Fante, ecco, l’unico suo libro che ancora mi manca. È lì sul comodino da mesi ma ho sempre qualche remora».
«In che senso?».
«Ti spiego, io lo adoro proprio Fante, ci sono cresciuta, a volte penso addirittura che mi abbia ‘insegnato’ più di quello che mio padre è stato in grado di fare».
Lui si rimise il cellulare in tasca e la guardò intensamente. Lei capì in quel preciso istante di avere la sua completa e totale attenzione.
«Ecco… sento ‘sta malinconia al solo pensiero che leggendolo io in un certo senso chiuda con lui. Come se fosse la mia ultima occasione di parlare con un caro amico che sta per partire e che mi lascerà per sempre. Non so se mi spiego».
Le avrebbe voluto dire che si era spiegata benissimo e che quella sensazione un po’ la conosceva anche lui. Gli capitava una cosa simile in certi film: sua madre era morta quando era troppo piccolo anche solo per ricordarselo, così, quando si imbatteva in pellicole con figure femminili di un certo rilievo, finiva col subirne il fascino materno e col crearsi dei falsi ricordi di se stesso con sua madre.
Non fece in tempo a mettere ordine fra i pensieri, che quel grido vibrò nell’aria una seconda volta, ancora più vicino. Lei si alzò muovendosi a scatti come in preda a scosse elettriche. Lui si ritirò su il cappuccio della felpa, come se quel semplice gesto potesse difenderli da tutto il male del mondo.
«Oddio, ma cos’è?».
«Stai calma, magari è una volpe».
«Una volpe?».
«Sì, ho letto da qualche parte che il richiamo della volpe selvatica è simile a quello di un urlo umano. C’è gente che per niente scomoda la polizia quando sente quel verso».
«Ma che diavolo ci farebbe una volpe selvatica in questa zona industriale?».
«Non lo so… Magari cerca lavoro!».
Un lampo blu si levò dal terreno a pochi metri da dove erano seduti loro. Durò una frazione di secondo. Questa volta si alzò anche lui con il cuore in gola e gli occhi accecati dalla luce.
Un attimo dopo un potente boato riempì l’aria. Gridarono insieme mentre sotto i loro piedi tutto vacillava. Furono secondi lunghissimi, in cui la terra vorticò tutt’intorno a loro. Per qualche istante rimasero immobili, paralizzati dal terrore. Lui la tirò a sé con forza, e cingendola col braccio la trascinò giù sul marciapiede, appiattendosi sull’asfalto. Il mondo che conoscevano si stava disgregando in miliardi di atomi, rendendoli incapaci di distinguere la terra dal cielo. Pensarono entrambi alla morte mentre la vita sfilava loro davanti, rapida e sfuggente come la pallina di un flipper.
Poi, così come era iniziato, tutto finì. Quando riaprirono gli occhi erano ancora abbracciati, invischiati, l’uno nell’altra. Lei provò a guardarsi attorno mentre lui proprio non ci riusciva con la testa incollata tra la spalla e il collo di lei. A parte qualche spaventosa crepa nell’asfalto e un palo della luce che ormai pendeva a pochi metri dal suolo, il resto di quel paesaggio non sembrava particolarmente mutato. Finché non posarono lo sguardo sulla loro fabbrica: il capannone non esisteva più. Era collassato su sé stesso, lasciando spazio a cumuli di macerie ancora fumanti.
I loro occhi si cercarono e sembrarono guardarsi per la prima volta davvero. Allora lui l’abbracciò di nuovo forte, un gesto impacciato e singhiozzante. Lei lo lasciò fare e percepì uno strano calore che saliva da quella morsa. Pensò alla sua famiglia e pregò che fossero sani e salvi, che la sua casa non fosse crollata e che Hank, il suo vecchio cane, non fosse morto di crepacuore. Però, in un certo qual modo si sentì grata verso quello che era successo: per averla messa fra le sue braccia. Si vergognò un poco per questa sensazione ma non fece nulla per scacciarla dalla mente. Gli sfilò delicatamente il cappuccio della felpa e prese la sua testa fra le mani.
«Stai bene?».
Lui annuì poco convinto, imbronciato, come un bimbo che dopo una severa punizione viene finalmente richiamato a tavola, e capisce così di non dover passare la notte a digiuno.
«E ora cosa facciamo?» gli chiese in un sussurro, guardandolo dritto in volto.
Il ragazzo contemplò per un attimo le macerie che aveva davanti poi si tirò su in piedi, e battendosi le mani sulle cosce e sulle ginocchia spazzò via la polvere che si era accumulata sui jeans. Assieme ai detriti gli sembrò che volasse via anche un po’ del senso di frustrazione e di irrequietezza che sentiva da troppo tempo. Si sentiva insolitamente leggero.
Tese un braccio verso di lei.
«Andiamo».
«Dove mi porti?».
«Ha importanza?».
«No, è vero. Non ce l’ha».
Si allontanarono lentamente, l’uno accanto all’altra.
 




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