(O)mission Impossible


Era una consolidata abitudine. Salvo rare occasioni, lasciavo fosse sempre lei ad abbandonare per prima il letto. Poi, non appena scompariva nella stanza adiacente, io rotolavo dalla sua parte del materasso, con le braccia afferravo il suo cuscino e ci sprofondavo la faccia dentro nel tentativo di respirare ancora un po' di lei, del suo calore. Amavo quei momenti, erano meglio del sesso, delle carezze, meglio persino dei baci rubati nel mondo là fuori. Quasi che con l'assenza momentanea dell'altro fossi davvero in grado, e solo in quelle occasioni, di sentire e misurare il 'peso' che lei aveva dentro di me, nei meandri della mia coscienza. E quando infine trovavo le forze per alzarmi e per raggiungerla in cucina, avevo la netta sensazione che ogni giorno assieme fosse un nuovo inizio.

Il giorno in cui tutto finì però, quasi fosse una sorta di presagio, mi alzai prima di lei, alle due di notte.
Fu il telefono del lavoro a squillare prepotentemente e a riportarmi alla realtà. A distanza di alcuni mesi, riesco ancora a ricordarmi di quel sogno spezzato a metà. Sognai mio nonno mentre camminavamo mano nella mano sul lungomare di Salerno. Io ero un bambino e lui mi stava redarguendo per aver offeso un ragazzino obeso. Nel mondo reale, il cellulare squillò proprio mentre lui mi stava accarezzando affettuosamente la testa con la sua mano candida, le unghie ben curate e quella pelle levigata e segnata da miliardi di rughe profumate.

La voce dall'atra parte proveniva dalla centrale di sicurezza a cui il deposito dove lavoravo era agganciata. A quanto pareva qualcosa aveva interrotto il segnale video con le numerose telecamere che presidiavano il perimetro esterno ed interno dell'edificio. Era richiesta la mia presenza, in quanto responsabile della struttura. Mi avvisarono che una pattuglia di sorveglianza era già in viaggio per raggiungere il deposito.

“chi era?” – fece lei con la voce impastata di sogni e ricordi.

“mi han chiamato dalla centrale. Un guasto alle telecamere. Faccio un salto veloce che sta arrivando una pattuglia della sorveglianza per un sopralluogo”

“mi devo preoccupare?”

“Non direi. Vedrai, sarà semplicemente un guasto. Al massimo in un'ora sarò di ritorno”

“Stai attento”

“OK”

“Ti ho sentito lamentarti poco fa, nel sonno. Tutto bene?”

“Si, stavo sognando”

“Cosa sognavi?”

“mio nonno”

“Mi spiace non averlo conosciuto”

“Si, gli saresti piaciuta”

Si riaddormentò quasi subito. Raccolsi un po' di vestiti sparsi sul pavimento, poi tornai da lei, le rimboccai le coperte e, prima di uscire dalla stanza, le diedi un bacio sul dorso della mano che spuntava fuori dal lenzuolo.

Venti minuti dopo arrivai al deposito. La pattuglia era già lì in attesa del mio arrivo. Uscii dall'auto e lanciai un'occhiata distratta ai due vigili. Era la prima volta che li incontravo, uno piuttosto giovane e corpulento, sulla trentina, occhi assonnati e una barba folta a incorniciargli il viso. L'altro, più mingherlino, dimostrava più di cinquant'anni e non aveva l'aria di chi avrebbe potuto prestare grande aiuto in una situazione di pericolo. Dopo qualche convenevole di presentazione li accompagnai alla porta di ingresso dell'edificio. Composi il codice per disattivare l'allarme ed entrammo. Una volta dentro procedemmo nella più completa oscurità per qualche metro, giusto il tempo di trovare tastoni lungo la parete lì dietro gli interruttori delle luci del deposito. Una volta premuti gli interruttori restammo qualche secondo in attesa che le luci prendessero vigore e iniziassero ad illuminare sufficientemente il perimetro interno dell'edificio.

Mentre la luce artificiale vinceva la sua battaglia col buio del capannone, mi salì una gran nostalgia di lei, e desiderai che quel piccolo inconveniente venisse risolto al più presto per poter correre a casa, infilarmi dalla mia parte del letto, e rimanermene fermo lì, in ascolto del suo respiro.
Non persi molto tempo e velocemente portai i due vigili nella stanza dei server per assicurarci che il centro elaborazione dati non fosse stato manomesso ma che si trattasse di un semplice problema informatico.

Un attimo prima di entrare nella stanza, il vigile magrolino mi bloccò col braccio impedendomi di avanzare.

“Ci aspetti fuori”

Lo guardai sorpreso. Credevo di essere l'unico a sapere come armeggiare fra quell'intrico di cavi e prese elettriche: cosa potevano saperne loro? Ma ci fu qualcosa in quello sguardo che mi frenò. Non dissi nulla, abbassai gli occhi quasi vergognandomi per quella reazione.
Richiusero la porta ed io rimasi all’esterno, con gli occhi incollati sulla punta delle mie scarpe, l'animo inquieto e la sensazione che qualcosa di strano stesse per accadere.
E invece non accadde niente. In barba alle mie preoccupazioni, i due se la cavarono egregiamente.  Riavviarono i server e dopo pochi minuti tutto riprese a funzionare regolarmente. Tornammo verso l'uscita e mentre i vigili mi augurarono la buonanotte allontanandosi verso la Panda rossa di ordinanza, io finii di chiudere il deposito e di allarmare la struttura. Una manciata di minuti dopo, ripartii a bordo della mia auto.

Era notte fonda, nessun rumore, solo la musica degli Stone Temple Pilots diffusa dall’autoradio che copriva il rumore del motore e delle gomme. Pochissimo traffico. Di tanto in tanto, scorgevo i fari delle auto che andavano nella direzione opposta alla mia. In un paio di occasioni superai il bagliore rosso dei fanalini di qualche veicolo più lento, e un’altra volta, vedendo comparire nel finestrino un paio di abbaglianti di un furgone mi feci superare, ma per lunghi tratti eravamo soltanto io e la strada. Mi sentivo al sicuro lì dentro, ero sereno, euforico all’idea di tornare a casa. Di tornare da lei.
Su una lunga discesa mi trovai davanti le luci posteriori di due auto che procedevano affiancate. Una Golf bianca cercava di sorpassare l’altra ma non riusciva a portarsi in testa, e fui costretto a rallentare.

“Ma che cazzo fate! Muovetevi”

Ero sempre restio a suonare il clacson, ma quella volta mi sentii quasi autorizzato a farlo, e diedi un colpo ben deciso. L’auto davanti accelerò con un rombo e finalmente concluse il sorpasso. Seguii la sua scia e mentre sfilai accanto alla Golf lanciai un’occhiata furtiva al conducente. Sembrava impossibile ma il tizio alla guida era uguale identico al vigile più giovane, quello che poco prima mi aveva bloccato l’ingresso alla stanza dei server e che poi era sparito col collega a bordo della Panda rossa. Ma era inverosimile che in così poco tempo fossero già riusciti a rientrare in centrale e a riprendere possesso delle loro macchine. A un certo punto, proprio mente cercavo di mettere a fuoco il volto del conducente nello specchietto retrovisore, la Golf sterzò a destra, senza mettere la freccia, e scomparve dalla mia visuale. Decelerai lungo quel tragitto che conoscevo a menadito e feci mente locale: ma non riuscii a ricordare alcuna strada che si immetteva sulla via principale. Mi girai di scatto sicuro delle mie ragioni e per un attimo staccai gli occhi dal volante ignorando le strisce pedonali poco più avanti.

Arturo, il ciclista trentunenne che investii quel giorno non morì: l'impatto con la macchina lo disarcionò dalla bici e lo mandò a sbattere contro dei rovi che stavano ai lati della strada risparmiandogli danni ben maggiori. Si fece comunque tre mesi di ospedale e quasi un anno di riabilitazione prima di poter tornare a camminare.
Quella notte, dopo l’impatto, sconvolto da un vero e proprio attacco di panico scappai via senza fermarmi, e fu proprio il sistema di videosorveglianza di un supermercato vicino a filmare la mia vigliaccheria e a inchiodarmi alle mie responsabilità. Da lì in poi, le cose per me andarono a scatafascio.
Persi prima la patente, poi moltissimi soldi tra risarcimento e pene giudiziarie. Poi persi la cosa più preziosa, persi lei, delusa dall’uomo e mortificata per la vittima. Arturo era infatti un amico di vecchia data nonché suo ex compagno universitario. Di colpo mi ritrovai completamente svuotato, dentro e fuori. Tutto ciò che di buono avevo fatto nella vita si era volatilizzato assieme a quell'omissione di soccorso.
Detestandomi ancora oggi per quello che NON ho fatto quella notte, vivo aggrappato all’unica cosa rimasta, il mio lavoro, e cerco redenzione nel volontariato presso un centro di accoglienza per immigrati e senza tetto.
Non ascolto più gli Stone Temple Pilots, e quando Scott Weiland è morto non ho condiviso nemmeno una canzone sul mio profilo Facebook. Dormo sempre in un letto matrimoniale ma per buona metà si tratta di territorio inesplorato da anni.
Ieri però ho sognato mio nonno. Era da quella sfortunata notte che non succedeva. Questa volta non ero più bambino. Ce ne stavamo seduti su una panchina, con davanti il mare, l'acqua come minimo comun denominatore della mia fase REM. Non mi ricordo tutto ciò di cui parlammo, so soltanto che a un certo punto nonno mi ha chiesto di lei. Ho cominciato a descriverla, dapprima un po' titubante poi, a poco a poco, sempre più a mio agio in quelle vesti di oratore. Ho finito col raccontare tutto di lei, di noi. Nonno era contento e mi ha confessato di volerla tanto conoscere.

Mi sono svegliato di lì a poco con questa strana sensazione addosso. Mi sono alzato controvoglia per andare a fare colazione, nel tentativo di allontanare quel velo di appiccicosa malinconia. Ho apparecchiato il tavolo come sempre: tovaglietta di plastica, ciotola di latte parzialmente scremato con i cereali, succo d'arancia, mezza banana e tazza di caffè, rigorosamente senza zucchero. La cosa buffa è che, nonostante la fame, non sono riuscito a toccare nulla, solo, nella mia testa, la mano di mio nonno che stringeva la mia e tutti quei fiocchi d'avena davanti al mio naso che annaspavano faticosamente in un oceano bianco e infinito.





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