La fregola dell'amico

(pubblicato su birò il 31/03/2021)

rano tredici mesi che non fumavo. Vagabondavo da un’ora alla ricerca di un’occasione speciale per ricominciare. Pensai di averla trovata quando i miei occhi incrociarono il verde lussureggiante della collina di Boboli. Senza staccare lo sguardo da quel panorama, giocai un po’ con la sigaretta tra le dita. Poi estrassi l’accendino dalla tasca dei pantaloni, ma esitai ad accenderla. Da non credere quanto sia bella la vista che si gode dal Forte Belvedere: da qui, sembra che la città si manifesti in tutto il suo splendore. Eppure, mi pare che pochi siano in grado di legittimare questa ovvietà.

Firenze è davvero bella solo per chi cresce altrove e poi la vede per la prima volta e se ne innamora. Per chi cresce da queste parti la bellezza del capoluogo toscano rischia di passare in secondo piano. Così come passa in secondo piano la bravura dei violinisti di fama mondiale, che vengono vestiti come barboni e fatti suonare in metropolitana. L’avevo letto da qualche parte: si chiama inibizione latente, ed è un semplice ma inesorabile meccanismo evolutivo.

“Hey, hai ripreso a fumare?”

Nico mi piombò addosso all’improvviso, buttandomi le braccia al collo e facendomi quasi cadere.

“Ciao anche a te, Mr Delicatezza!”

Mi ricomposi massaggiandomi la spalla sinistra e, prima di prender parola, aspettai che finisse di sogghignare. 

“Comunque non è detto.”

“Cosa?”

“Che me la fumi.”

Sollevai la sigaretta, stringendo il filtro tra indice e pollice. Ero contento di rivedere il mio amico.

“Vedi? Non l’ho ancora accesa.”

“Lo farai?”

Mi presi qualche secondo per rispondere a quella domanda. Era una nostra consuetudine quella: chissà perché, infatti, i nostri dialoghi finivano spesso con lo scimmiottare i film di Tarantino.

“Non lo so” – feci un’altra pausa  – “mi stavo chiedendo se oggi fosse una buona occasione.”

“E lo è?”

“Forse non più. Grazie a te.”

Feci scomparire la sigaretta in una tasca e sputai un pezzettino di filtro.

“Piuttosto, perché mi volevi vedere?”

“Allora, sto uscendo con una, di nascosto, e quindi ho detto alla mia compagna che venivo da te perché ti ho visto depresso e ho paura che ti ammazzi.”

“Che stronzo! Se ti serviva una scusa per fare i tuoi porci comodi con l’amante, perché tirarmi fuori di casa? Proprio mentre mi stavo guardando Suburra?”

“Mannò, che hai capito. Io volevo parlare un po’ con te. E poi non ti sei perso niente: alla fine Lele si suicida e Spadino e Aureliano giurano vendetta a Samurai.”

“Bastardo infame!”

Lo guardai con un misto di ribrezzo e compassione. Quello spoiler mi aveva fatto male più di uno schiaffo in faccia.

“Consigliami un ristorante carino. Niente roba snob e gente di merda.”

“Allora ti serve il passaporto!”

“Dai, seriamente.”

“Ma non potevi telefonarmi?”

“Era un po’ complicato, stavo con Jessica.”

Pronunciò il nome della sua fidanzata inarcando entrambe le sopracciglia. Scossi la testa, desolato. Il guaio di crescere circondato da amici privi di moralità non è tanto che tendi ad emularli, quanto che rischi di considerarti immotivatamente migliore di loro. Ormai alla soglia dei trentacinque anni, Nico si poteva definire un agonista dell’adulterio, un professionista del tradimento. Tutte le chat WhatsApp, fantacalcio, calcetto del sabato, ping pong del martedì, sono stracolme delle sue foto porno, tanto da non sapere più se nella foto gallery c’è un libro di anatomia o il subconscio di Rocco Siffredi. Una volta ci mandò un video di una sua amante che si masturbava con una confezione di biscotti Ringo che ci disgustò: lo cancellammo tutti quasi subito, senza finire di vederlo: eravamo convinti fosse uno di quei filmati tipo The Ring (o the Ringo, dato il soggetto) che se lo guardi dopo tre giorni ti viene la sifilide.

Nico però viveva la sua infedeltà patologica in maniera quasi serena, ascetica oserei dire. Era come se negli anni avesse sviluppato la tendenza ad auto assolversi per la sua condotta immorale sulla base dell’evidenza di non essersi mai innamorato sul serio.

“Ma io che ne so. Guarda su Tripadvisor o TheFork come fan tutti, no?!”

“Ma vuoi mettere? La cara vecchia tradizione orale?”

Poi la sigla di Daitarn 3 riempì l’aria, avvolgendo tutto. Nico non batté ciglio e continuò a parlare come fossi l’unico su quella terrazza in grado di udire quella musica postpuberale. Per un attimo, pensai che potesse essere l’anticamera di un ictus e dilatai le pupille aspettando eventuali conferme dal mio corpo. Nico mi guardò un po’ stranito, poi si infilò la mano in tasca e tirò fuori il suo telefono ponendo fine a quelle note e facendomi vergognare della mia ipocondria. 

“Pronto?” – lo vidi portarsi una mano dietro la nuca e sbuffare. In lontananza, intanto, una piccola comitiva di studenti si avvicinava.

“Non mi devi chiamare a questo numero, cazzo. Non mi frega NI-EN-TE!” –  scandì con grande precisione, come a una gara di sillabazione. Poi riattaccò con una gestualità piuttosto accentuata e mi guardò, scuotendo la testa.

“Lasciami indovinare: Jessica?”

“Peggio. Un ragazzetto viziato a cui ho fatto un cazzo di favore.”

“Tipo?”

“Gli ho venduto del charas, regalato praticamente. Ora però a quel prezzo è follia pura. È hashish pregiato di seconda battitura, tu lo sai…”

“Ma io non so proprio un cazzo, invece!”

“Massì, dai, friabile al tatto, barricata dodici mesi nel culo di un adolescente marocchino. Viene prodotta in Nordafrica e poi lasciata riposare per qualche mese a Lampedusa. Pensa che i corrieri, dei ragazzini, si mettono a novanta gradi per mantenerla umida, poi frignano di continuo perché Salvini gli scrive sui social che son tutti clandestini di merda e che devono tornarsene al Paese loro. Così il fumo assorbe sogni infranti e poca gioia di vivere. Risultato: zero paranoia. Roba di livello, amico mio.”

Mi guardai attorno, sperando che nessuno fra i ragazzi lì attorno ci stesse ascoltando. 

“Ancora con questa storia? C’hai quasi quarant’anni! Ma un lavoro come si deve proprio no, eh?”

“Si dà il caso che io abbia un lavoro, poi niente prediche, please. Non è un business mio, è per un mio amico: gli sto dando una mano a dar via un po’ di roba che gli è cascata in mano. È di Roma, fuori dai giri, lui.”

“Già, tu invece ancora ci sguazzi!”

“Ma vaffanculo” – disse, dandomi uno spintone.

“No, fanculo te” – replicai con troppa forza e, per poco, Nico e il suo metro e settanta non finirono a terra. Appena riprese l’equilibrio, mi si buttò addosso e per un po’ andammo avanti così, ridendo sguaiatamente e spintonandoci a vicenda. Un valzer memorabile ma ballato come fossimo ubriachi fradici.

“Signori, scusate.”

Quella frase fu per noi il gong dei giudici di Ballando con le stelle. A pronunciarla, un collarino ecclesiastico con in cima una rotonda testa avvizzita e spelacchiata. L’uomo se ne stava a braccia conserte e ci guardava con una certa serietà. O meglio, era soltanto il suo occhio destro a guardarci, quello sinistro avrebbe tanto voluto, invece si muoveva in direzione ostinata e contraria, velocissimo, come a rivendicare vita propria. Più che strabico, il prete aveva un occhio in autogestione.

 “Ci sono dei ragazzi in gita, mi fate la gentilezza di ricomporvi e raccontarvi tutte queste scurrilità altrove?”

“Mi scusi, padre, noi…” – ero già pronto a redimermi quando Nico entrò nella discussione come Marco Materazzi su di una caviglia.

“Ma mi scusi un par di palle!”

Da qualche parte nel mio cervello, sentii chiaramente un rumore, come di un osso che andava in frantumi.

“Questo è suolo pubblico e noi non stiamo dando fastidio a nessuno. Possiamo abbracciarci rumorosamente e parlare di ciò che ci va. Piuttosto, se lei non è interessato, perché ci sta ascoltando? Cos’è, le piace origliare? O giudicare dall’alto della sua tunica?”

Non potevo rimanermene lì. Dovevo fare qualcosa che evitasse guai ben peggiori, quindi provai a frappormi fra lui e il polifemo in abito talare.

“Nico, stai calmo. Che bisogno c’è?”

“No” – fece il prete –, “il suo amico ha ragione, questo è suolo pubblico e potete fare ciò che volete, ma dovreste considerare di moderare un po’ il linguaggio. O selezionare meglio gli argomenti.”

A quel punto, Nico tornò alla carica più ringalluzzito che mai.

“Ma qual è il problema? Io sto solo parlando con un amico. Se non le piace quello che sente, può anche allontanarsi.”

“Come vuole. Ma si ricordi che Dio ci ascolta sempre!”

“Eccoci, mi sembrava strano che non avesse ancora chiamato in causa l’Altissimo! Quindi sta per caso dicendo che l’unico motivo per cui dovrei moderare il linguaggio è ottenere l’approvazione e la ricompensa di Dio? Questa non è etica, ma solo ruffianeria, adulazione, timore del Grande Fratello dei Cieli!”

La clamorosa replica di Nico lasciò di stucco sia me, sia il prete.

L’uomo di chiesa biascicò qualcosa, senza che nessuno riuscisse a capire alcunché. Poi, come fosse un refolo di vento, si allontanò e raggiunse, mesto, il resto della sua comitiva.

Io, ancora ammutolito dall’eccellente qualità dialettica di Nico, rimasi in silenzio a lungo prima di proferire verbo.

“Madonna quanto parli, ma dove l’hai imparato?”

“Non nominare la Madonna, sennò quello non ce lo leviamo più dalle scatole. In realtà, mi dispiace aver reagito così ed essermi arrabbiato. Che poi in Dio io ci credo sul serio. È il resto dei suoi dipendenti a starmi antipatico.”

Mi strappò un altro sorriso, l’ennesimo in quella giornata grigia.

“Perché non prendi in considerazione l’idea di entrare in politica?” – feci io. – “In mezzo a tutti quei pifferai magici tu saresti perfettamente a tuo agio.” 

“Lo prendo come un complimento.”

Nico fece due passi e, arrivato al limitare della terrazza, si mise a scrutare l’orizzonte come fosse un marinaio in cerca di terra. In fondo, a parte la repellenza per la monogamia, era ammirevole la sua dedizione alla vita. Affrontava tutto di pancia, con granitica fiducia nei suoi mezzi e non si perdeva mai d’animo nemmeno quando finiva a gambe all’aria.

Lo raggiunsi e, senza dire niente, lo afferrai con la mano per il collo strattonandolo affettuosamente.

“Ti va di bere qualcosa?”

Lasciammo l’aria marzolina e ci rifugiammo nell’elegante bar della terrazza dove pagai pegno per la mia indolenza e mi feci spennare per due Negroni. Consumammo l’aperitivo parlando di calcio e di musica. Fra il resoconto del concerto di Motta e l’episodio del Var in Milan-Inter, trovai anche modo di suggerirgli un paio di ristorantini per la sua serata adultera. Poi, Jeeg robot d’acciaio ci interruppe una seconda volta e Nico mi salutò per volar via come Hiroshi Shiba.  

Rimasto solo, ordinai un bicchiere di vino rosso, lasciando all’alcool il compito di lubrificare emozioni e sciogliere gli iceberg nel mio petto. Quando uscii dal locale, il freddo si era fatto pungente. Mi tirai su il colletto e cincischiai ancora un po’ con le mie gambe, indecise sul da farsi. Il sole stava ormai tramontando e la vista sulla città era a dir poco favolosa. Pensai per un attimo alla mia ex-moglie, ai pochi progetti realizzati, ai figli che non avevamo avuto, alle città che non avevamo visitato e a tutti quei sogni che erano piombati giù in fretta, come quell’immenso sole dietro ai palazzi gloriosi e un po’ scalcinati di Firenze. Scacciai via quei pensieri scuotendomi tutto, come se dentro di me la coscienza avesse preso a spazzare con una scopa saggina tutte quelle briciole di malinconia. 

Mi frugai nei pantaloni e tirai fuori quella sigaretta sgualcita che avrei dovuto fumarmi prima che Nico afferrasse per le redini quell’apatico pomeriggio. Me la portai alla bocca e, con entrambe le mani libere, passai a tastarmi le tasche alla ricerca del solito accendino.

Non lo trovai. Forse mi era caduto nella piccola zuffa con Nico. Era destino che non riuscissi mai a ritrovare niente, quando serviva davvero. 

Mentre armeggiavo con le tasche del cappotto, qualcosa catturò la mia attenzione e mi voltai. Una ragazzina vestita con un bomber verde e un berretto di lana troppo piccolo per quella testa riccioluta mi fissava con due occhioni color caffè.

“Posso aiutarti?”

“Scusa, c’hai ‘na sigaretta?”

Sembrò proprio che la fortuna fosse corsa in mio aiuto. Sarebbe bastato dirgli che quella che penzolava dalle mie labbra fosse l’ultima (ed era proprio così) e poi avrei capovolto la situazione, chiedendole in prestito l’accendino. 

“Guarda” – feci, sfilandomela di bocca –, “se non ti schifi, ti do questa. È l’ultima, ma forse non mi va veramente.”

“Ah, ok! Sì, grazie.”

Senza fare tante storie, la ragazza prese la sigaretta e si allontanò in direzione dei suoi amici.

Erano tredici mesi che non fumavo e il mondo sembrava genuinamente interessato alla mia perseveranza. Un venticello gelido mi fece battere i denti e mi spronò a dirigermi verso l’uscita. Dopo pochi metri, più o meno dove io e Nico ci eravamo teneramente azzuffati, scorsi per terra il mio accendino. Non lo raccolsi, passai oltre. Quando finalmente presi la via di casa, mi sentii meglio, alleggerito di un gran peso e con l’umore dannatamente buono.




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