Pico de Cantagallo
Mi
avevano detto che quel giorno non avrebbe piovuto. Mi fermai un attimo a
contemplare maglietta e pantaloncino, completamente fradici, e poi proseguii a
zig zag per la 5a Avenida, come se sbisciolare tra le pozzanghere
mi potesse in qualche modo tenere al riparo dal nubifragio. Se c'era una cosa
che avevo imparato in quei primi quattro giorni è quanto il 'tempo' in Messico
fosse un grandissimo figlio di puttana.
Soltanto
ieri, per dire, avrei fatto carte false per un po' di pioggia:
ero stato infatti al sito archeologico di Chichen Itza che nel linguaggio Maya significa 'bocca del pozzo dei maghi dell'acqua' in riferimento al suo Cenote Sagrado, ai tempi considerato la porta per l'aldilà. Luogo mozzafiato, intendiamoci, ma, nelle giornate di cielo terso, autentico forno all'aria aperta che non lascia scampo alcuno se non patire un caldo boia mentre guide locali tentano inutilmente di distrarvi dall'afa con pettegolezzi in salsa maya e storielle varie. Io ne avevo assoldata una tutta per me che parlava italiano, salvo scoprire che si esprimeva poco meglio dell'onorevole Razzi, ma con un accento insopportabile alla Miguel Bosè quando si prodiga nella lingua di Dante e Sfera Ebbasta. Alla fine avevo insistito perché parlasse in spagnolo e così era andata meglio. Mi faceva troppo caldo per scattar foto così l'unico ricordo che avrei serbato negli anni a venire sarebbero stati un braccialetto maya acquistato a peso d'oro da un ambulante di zona e un aneddoto raccontato da Jesus sotto uno dei pochi alberi che incorniciavano il sito archeologico. La guida mi raccontò che nel 1997, in occasione del concerto di Luciano Pavarotti a Chichen Itza, il primo evento mediatico a svolgersi in quell'idilliaco scenario, durante i preparativi per l'allestimento dell'imponente scenografia, si scoprì che sotto la piramide di Kukulcan ne esisteva un'altra che apparteneva al periodo Maya precedente. Incalzai Jesus curioso di apprendere come erano riusciti a scoprire una seconda piramide, ma la guida non conosceva molti dettagli: forse in seguito a uno scavo fatto per l'installazione del palco. A me, tramortito dal caldo, piacque pensare che magari Lucianone nostro inciampando goffamente avesse causato, precipitando al suolo, il cedimento del terreno e permesso all'umanità di fare un'altra prodigiosa scoperta.
ero stato infatti al sito archeologico di Chichen Itza che nel linguaggio Maya significa 'bocca del pozzo dei maghi dell'acqua' in riferimento al suo Cenote Sagrado, ai tempi considerato la porta per l'aldilà. Luogo mozzafiato, intendiamoci, ma, nelle giornate di cielo terso, autentico forno all'aria aperta che non lascia scampo alcuno se non patire un caldo boia mentre guide locali tentano inutilmente di distrarvi dall'afa con pettegolezzi in salsa maya e storielle varie. Io ne avevo assoldata una tutta per me che parlava italiano, salvo scoprire che si esprimeva poco meglio dell'onorevole Razzi, ma con un accento insopportabile alla Miguel Bosè quando si prodiga nella lingua di Dante e Sfera Ebbasta. Alla fine avevo insistito perché parlasse in spagnolo e così era andata meglio. Mi faceva troppo caldo per scattar foto così l'unico ricordo che avrei serbato negli anni a venire sarebbero stati un braccialetto maya acquistato a peso d'oro da un ambulante di zona e un aneddoto raccontato da Jesus sotto uno dei pochi alberi che incorniciavano il sito archeologico. La guida mi raccontò che nel 1997, in occasione del concerto di Luciano Pavarotti a Chichen Itza, il primo evento mediatico a svolgersi in quell'idilliaco scenario, durante i preparativi per l'allestimento dell'imponente scenografia, si scoprì che sotto la piramide di Kukulcan ne esisteva un'altra che apparteneva al periodo Maya precedente. Incalzai Jesus curioso di apprendere come erano riusciti a scoprire una seconda piramide, ma la guida non conosceva molti dettagli: forse in seguito a uno scavo fatto per l'installazione del palco. A me, tramortito dal caldo, piacque pensare che magari Lucianone nostro inciampando goffamente avesse causato, precipitando al suolo, il cedimento del terreno e permesso all'umanità di fare un'altra prodigiosa scoperta.
Fatto sta, che oggi sopra le nostre teste si stava rovesciando
l'intero Golfo dei Caraibi e nulla lasciava pensare che avrebbe mai
smesso di piovere.
Esausto
e zuppo dalla testa ai piedi trovai riparo sotto l'ombrellone esterno di un
locale che faceva burritos. Mi sfilai la t-shirt, la strizzai per bene facendo
uscire almeno un litro d'acqua e la appoggiai sullo schienale di una sedia di
plastica al riparo da quella instancabile pioggia. Mi tastai i pantaloncini
alla ricerca del cellulare. Lo trovai in condizioni ancora accettabili e, dopo
aver ripulito lo schermo usando i peli del mio avambraccio come improvvisati
tergicristalli, mi misi a controllare l’oracolo.
L'applicazione del meteo, in
quel preciso istante, dava sole e ventinove gradi a Playa del Carmen. Guardai
per bene lo scroscio della pioggia a pochi centimetri dal mio naso come per
essere sicuro che stesse davvero piovendo e che non fossi io a soffrire di allucinazioni.
Ma proprio mentre era stretto fra le mie dita, il cellulare squillò: era mio
fratello. La pioggia si intensificò, producendo, all'unisono con la suoneria
del telefono, un frastuono assordante ed insopportabile. Mi feci più sotto
all'ombrellone poi, col telefono appoggiato fra spalla e orecchio mi
aggrovigliai a quel palo come un koala abbarbicato al suo albero di eucalipto
preferito.
“pronto”
“Hey.
Pronto. Che è 'sto casino? Sei in Messico o in una lavastoviglie”
“Piove”
“A me
sembra diluvi”
“Anche
peggio, ti dirò”
“Perché
non mi hai chiamato?”
“Volevo
chiederti la stessa cosa”
“Ti sto
chiamando ora però”
“Ti
avrei chiamato anche io. Appena avesse smesso di piovere”
Sapeva
che stavo mentendo. Da quando era morta mamma mi ero staccato da lui, da nostro
padre e più in generale dalla mia vita precedente. Alla base di questo
allontanamento non c'erano fatti specifici o colpe altrui se non la mia
codardia nell'affrontare la dolorosa perdita. Dopotutto mamma era sempre stata
il collante di casa, il pianeta principale e noi i satelliti che le orbitavano
attorno. Papà era troppo vecchio e orgoglioso per starmi dietro e provare a
ricomporre le tessere del puzzle familiare. Io ero troppo arrendevole
per farmi acciuffare e mio fratello Federico lo era troppo poco per stare al
mio passo. Ecco che la mia recente incarnazione da blogger, le rate di un'auto
troppo costosa per il mio tenore di vita o i miei continui viaggi erano solo
vane e volatili scuse al mio maldestro adattamento alla vita da quando mamma se
ne era andata. Assieme a lei aveva spiccato il volo anche una grande parte di
me. Una fetta bella grossa,
considerevole e forse era proprio a causa sua che viaggiavo rimbalzando da un
angolo del globo a un altro: sperando un giorno di trovarla, di ritrovarmi.
In
Messico, fin dal giorno del mio arrivo, mi era sembrato di star meglio. Non
saprei dire bene cosa fosse, semplicemente quell'aria nuova mi aveva fatto
bene. Come quando da piccolo i miei ci portavano in spiaggia e l'aria di mare
leniva subito i nostri malanni da mocciosi.
“Ti
piace lo Yucatan? Raccontami qualcosa.
Qualunque cosa”
“Non
male direi. Ieri sono stato a Chicen
Itza”
“Bellissima
Chicen Itza, io ci son stato in
viaggio di nozze. Te lo ricordi?”
“Si” Avrei voluto ricordarmelo, ma non era così.
“Una
delle sette meraviglie del Mondo Nuovo. Ci sono stato con Giulia, come a Petra, al Machu Picchu e ovviamente al Colosseo...
Dai, vediamo se ti ricordi le altre”
“Beh,
il Taj Mahal mi sembra”
“Si il Taj Mahal, meno due!”
“La Muraglia cinese”
“Bravo.
Ne manca una. Quale?”
“Non
saprei, non ricordo. Ma che è? Un quiz?”
“Dai,
che lo sai”
“mmmm...”
“Tempo
scaduto. Spara”
“L'autogrill di Cantagallo?”
“Fuochino,
molto bello, ma ha perso il ballottaggio contro il Cristo Redentore di Rio”
“Già…”
“Già...”
“senti
Federico sto bene, davvero. Sento delle buone vibrazioni qui in Messico, e di
sicuro scriverò degli ottimi pezzi”
“lo
credo anch'io”
“Chiama
papà e digli che sto bene che è tutto ok. Digli che a luglio torno per qualche giorno”
“Lo
farai sul serio? Voglio dire, tornerai per un po'? Non finirà come a Natale,
vero?”
“No,
torno. Promesso”
“Ok,
buon Messico allora, buon lavoro, buon tutto insomma”
“Si”
La
pioggia continuava a cadere e le strade, complice un rivedibile sistema
fognario, cominciavano ad allargarsi e ad assomigliare a dei fiumi in piena.
Raccolsi la maglietta, me la appoggiai sulla spalla e feci per entrare nel
locale.
“chieres
mieles?”
La voce
proveniva da un volto autoctono. La pelle non più giovane, abbronzata e al
tempo stesso avvizzita da tutta quella salsedine da quei calori. Gli occhi,
piccoli e sottili, che si declinano e si abbassano verso le orecchie e un naso
schiacciato con due grandi narici al centro di quel volto così interessante, e
vissuto. Io rimasi zitto, colpito da cotanta messicanità. L'uomo, fradicio come me eppure incurante di quella
sua condizione, invece che retrocedere dinanzi a quell'assordante silenzio
sganciò un sorriso a ventidue denti (tanti erano i vuoti di sceneggiatura in
quel cavo orale) che me lo rese ancora più iconico e ammaliante. Solo dopo
qualche secondo notai la scritta su quel cappellino da baseball troppo largo
per la sua testa, 'Siente, Disfruta, Vive'.
Gli
feci cenno di avvicinarsi, di mettersi al riparo dalla pioggia sotto
l'ombrellone ma lui non parve interessato, come se quella pioggia non fosse
altro che un'appendice del suo microcosmo. Continuò a parlarmi in spagnolo, ma
ero troppo distratto da quello che vedevo per comprendere a pieno il senso del
suo discorso. Su di lui la pioggia sembrava cadere in modo diverso, quasi come
se fosse lievito e la sua pelle un impasto che prendeva forma, cresceva, e si
trasformava in qualcosa di familiare. Quella visione mi ipnotizzò e portò la
mia testa altrove: scorsi, per la prima volta, quell'indefinibile brezza che si
respira nell'aria messicana, che si assorbe dai pori e che ti scivola addosso
quando piove. Una sensazione unica e circoscritta a questo piccolo paradiso
che, come cambiando le leggi della fisica, permette allo scorrere del tempo di
rallentare e di crogiolarsi in una diversa dimensione e percezione della realtà
circostante.
Questo
turbinio di sensazioni mi riportò alla telefonata di poc'anzi con Federico, e
più in generale all'enorme diversità fra questa parte di mondo e la mia realtà.
Mi fece riflettere ad esempio sul poco
tempo che rimaneva ad ognuno di noi per essere gentili con il resto
dell'universo, pensai con riluttanza al contesto competitivo della vita stessa
dove è usuale misurare il proprio impatto in base ai risultati ottenuti e al
tempo impiegato per riuscirci, dove per ottenere una borsa di studio devi essere
più bravo di qualcun altro, per ottenere un lavoro migliore devi vincere un
concorso e magari può non bastare perché oltre alla bravura dei fare i conti
con la fortuna o le conoscenze altrui. La gentilezza invece non è contemplata,
è assolutamente accessoria e, a differenza del talento individuale, non è condizione
necessaria e sufficiente all'integrazione, al successo.
“Como
te llamas?”
Nonostante
il mio spagnolo non fosse affatto terribile, mi accorsi di aver parlato per la
prima volta in quell'idioma da quando ero atterrato all'aeroporto di Cancun.
Forse era il momento giusto per rompere quel silenzio. Di far uscire un po' di
gentilezza, senza chiedere niente in cambio.
“Hernando.
Y tu?
“Enrico”
A me il
miele non era mai piaciuto, ma finii comunque col comprarne tre barattoli.
Hernando mi ringraziò tantissimo e mi offrì una delle sue sigarette. Mentre
fumavamo mi raccontò della lunga e florida tradizione del miele nello Yucatan.
Mi disse che questa penisola ospitava sedici tipi di api e che il miele che io
avevo acquistato era stato prodotto dalle api melipone, la specie più
allevata. Nella cosmogonia Maya esisteva addirittura un dio guardiano
delle melipone. Hernando provò più volte a pronunciarne il nome ma, fra la sua
sdentatura e il mio arrugginito spagnolo, ci vollero almeno una ventina di
tentativi. E fu così che, Ah Muchen Kab, entrò finalmente nella mia
testa soppiantando i non meno apprezzabili Amukina e Muy Kebab.
Prima di lasciarmi mi abbracciò e mi scrisse su un pezzettino di carta il suo
indirizzo nel caso, prima di partire, mi fosse servito altro miele.
Il
giorno seguente mi recai a Tulum per visitare un altro sito
archeologico, scattare finalmente qualche fotografia ma soprattutto per trovare
ispirazione per il blog. In realtà non compicciai nulla, il blog rimase
ammutinato per il quinto giorno di fila. Anche quel pomeriggio, per un'ora
circa, piovve furiosamente. Quando lo scrosciò terminò, telefonai a mio padre.
Rispose quasi subito, come se stesse aspettando quella chiamata. Non fu una
telefonata molto lunga. Più che contento di sentirmi sembrava sollevato,
come quando da ragazzini io e mio fratello rincasavamo di notte e lui, sdraiato sul letto accanto a mamma, faceva finta di dormire. Nessuno dei due trovò il coraggio di
chiedere come stavamo. Ma anche senza dirlo, lo capimmo: lui mi raccontò che
aveva comprato un altro garage nel suo condominio per usarlo come ripostiglio e
che a Milano aveva conosciuto una signora gentile al concerto di Yann
Tiersen. Io gli dissi che a luglio gli avrei portato un barattolo di miele
artigianale e che in Messico c'era sempre il sole ma almeno una volta al
giorno, puoi stare sicuro, piove. Madonna se piove.
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