Il mio sottosopra

(pubblicato su Grande Kalma il 1/02/2021)

Quando ero bambino trascorrevo l'estate disperso sull'appenino irpino, nella casa di campagna dei nonni. Me li ricordo bene quei giorni: torridi, umidicci ma comunque lievi e in qualche modo spensierati, durante i quali una moltitudine di amici e parenti animava il paesaggio, in un interminabile viavai che trasformava l’intera zona in un carnevale meridionale condito da voci chiassose e sguaiate. E tutto intorno alla casa, un orrendo prefabbricato color giallo ocra tirato su dopo il terremoto del 1980, l’abbaiare eccitato dei cani legati in cortile, e il chiocciare delle galline che cercavano di sfuggire da mia nonna, scorrazzando nell'aia e sollevando piccole nuvole di nebbia al gusto di ghiaia e polvere. Quelle settimane rappresentavano, senza dubbio alcuno, la mia pausa di riflessione dalla città e dai suoi ritmi tumultuosi e stressanti; erano, come avrei capito solo anni dopo, quanto più si avvicinava all’esperienza e al concetto di serenità: durante quei giorni vivevo catapultato in una specie di altra dimensione, un upside down in perfetto stile Stranger Things, dove nessuna paura suburbana, nessuna infelicità domestica, nessuna parola sbagliata andava a compromettere, subdolamente, le persone, il loro stare insieme, l’equilibrio felice che solo in quel periodo dell’anno si creava, permanendo con prodigiosa, inattesa durevolezza. Come i personaggi dei telefilm, anche io vivevo in una doppia dimensione, soltanto che, invece che terrorizzarmi, il sottosopra era la mia ancora di salvezza, la mia scialuppa di salvataggio dal mondo reale, un mondo competitivo e accelerato, in cui i miei genitori lottavano quotidianamente, strangolati da mille impegni, per ritagliarsi gli istanti da passare in famiglia. Durante quelle estati, invece, ogni cosa era sotto il mio controllo, o così mi piaceva pensare, e tutti noi potevamo finalmente dedicarci gli uni agli altri, senza doverlo mendicare continuamente all'esistenza. E quindi io mi sentivo bene lì e lì soltanto, con gli ulivi a fare da perimetro al nostro regno, l’uva bianca a costellare il mio cielo di bambino e le piante appiccicose di fico, a nutrirmi nello stomaco e nell’immaginazione. Se qualcuno avesse potuto scorgere dentro la mia testa, all'interno, cristallizzata, avrebbe indubbiamente notato la bellezza perfetta di quel mio piccolo e inattaccabile mondo antico. Quando l'inesorabile scorrere del tempo si prese prima i nonni e poi la casa di campagna, con sé si portò via anche brandelli significativi della mia infanzia e, sotto il peso degli anni che si accumulano, oltre al concetto di mortalità, realizzai come il normale incedere dell'esistenza fosse quanto di più distante da quel prefabbricato, dalla sua terra e dai cuori che la abitavano. Ma nonostante la beffarda illusione, ancora oggi, mi sento invischiato in quel sottosopra come resina su una corteccia e, la casa di campagna continua a essere la cosa più vicina al concetto di porto sicuro che la mia mente possa elaborare: un luogo diverso per tutti eppure unico nel suo comunicarci quel sentimento preciso: ossia il posto, la dimora, il cortile dove si è pensata per la prima volta la felicità, dove il bello è ciclico e il brutto se ne sta fuori, come un demogorgone che mai ci acciufferà, un posto dove ritrovare i più bei ricordi di mia madre, dei miei cugini, del tempo che passa e non torna più. Certe notti, quando l'insonnia mi tiene compagnia, se chiudo gli occhi e ci penso intensamente, ingannando tutti, anche me stesso e la mia smarrita innocenza, io posso ancora tornare laggiù, in quella casa, e sentire nelle narici l’odore inconfondibile della pelle di mia sorella bambina, che in quei luoghi odorava di talco e il tempo si fonde e si concentra in un unico punto, infinito, dove infine la paura non esiste, soltanto un lieve timore come in quelle mattine da bambino, quando appena sveglio, faticando a realizzare dove fossi, mi bastava scivolare fuori dalle coperte e raggiungere il lettone dei nonni, infilarmi lì nel mezzo e lasciarmi scaldare dalle loro risate, dalla luce tiepida del sole, che faceva capolino dalle persiane socchiuse. Noi, che come quelle galline nell'aia ci affanniamo per sfuggire alla vita che cerca di prenderci e portarci via, dovremmo tutti girare lo sguardo a quei luoghi, a quei momenti preziosi e indimenticabili, reali o immaginari, e non dimenticare mai qual è la via, la strada per tornarci. Là dove tutto è iniziato, lontano dal tempo che passa, lontani dalle paure e dalle gabbie che a volte ci aspettano.

(leggilo anche su Grande kalma)





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