i Giganti


(pubblicato su Risme il 01/09/2020)

Provai goffamente a posare il libro che credevo di avere tra le mani. Contemporaneamente tentai di spegnere la luce dell'abat-jour e dormire. Ma a tenermi compagnia su quel letto, a parte te, non c'era nessun libro, nessuna luce accesa. Solo il buio e sullo sfondo il ronzio dei miei pensieri che, in qualche modo, mi aveva tenuto ancora connesso a quelle pagine. Mi era sembrato di essere io stesso le cose di cui quel romanzo parlava: un viaggio alla ricerca di risposte; la caccia ai bisonti; la spoglia cittadina di Butcher's Crossing; il fiume che dà e il fiume che toglie.
Fantasticando proprio sullo Smoky Hill River del romanzo, penso
all’acqua del nostro fiume, che scorre fuori dalla finestra, lontano poche
decine di metri. Scorre sotto le rocce e le radici degli alberi del parco
dell’Anconella, e con lui scorriamo anche noi e il tempo, mai uguale a
prima, anche se troppo spesso ci piace pensare di essere immutabili ed
eterni, impermeabili a qualsiasi cambiamento. É sull’acqua che mi
soffermo e che rimugino, mentre con gli occhi socchiusi provo a
inseguire un sonno che non si vuol fare acciuffare. E non è un caso che
proprio l’acqua sia l’elemento presente in tutti i luoghi che hanno tenuto
a battesimo il nostro ingenuo sentimento: l’Arno nella sua declinazione
fiorentina, e quello che invece lambisce le spallette pisane. E poi l’acqua
del mare, quello di Napoli e di Livorno. Nell’acqua dolce e trasparente e
in quella salmastra e spumeggiante ci siamo riconosciuti e in qualche
modo scelti scacciando la strana nostalgia del viaggio che si ha paura di
non fare mai, in questa sola vita che abbiamo. Questo ho pensato,
guardandoti dormire stanotte nella minuscola casa di Firenze, troppo
piccola per noi due giganti. E mentre la città si addormenta docile, e
l’odore umido del fiume entra nella stanza avvolgendo i muri, io sbircio dalle persiane le case davanti, mi immagino le vite degli altri, e mi rammarico di saper empatizzare sempre così poco con l’altra metà del mondo là fuori. Ho tentato di rimboccarti le coperte, stropicciate ai piedi del letto; mi son chinato silenzioso su di te, sfiorandoti quasi i capelli con le dita, ma ho lasciato perdere tanto era reale il timore di svegliarti. Alle mie spalle la finestra, e dietro ancora quel fiume che, nel bene e nel male, può travolgerci e risucchiarci. Guidato unicamente dalla luce della luna mi sono alzato e ho fatto un po’ di ordine. Ho raccolto le tue scarpe dal pavimento, la camicetta bianca e i jeans che ti avevo strappato di dosso solo poche ore fa. Mentre mi muovevo nella stanza guidato da questo inaspettato impulso mi è sembrato di rassettare anche me. Mi sono raccolto dal pavimento assieme a un paio di calzini appallottolati, cercando di non svegliarti e di non sentire la tua mancanza. Ho messo tutte queste sensazioni preziose in una scatola dentro la mia testa, sbirciandoti nell’oscurità ancora una volta, per vedere, per non dimenticare più questo istante, il nostro amore ancora acerbo ma incondizionato. Mi sono coricato, a pochi centimetri dai tuoi fianchi, e ho guadato il tuo viso buono. Mi sono commosso nel sentirti addosso una delle mie magliette e, poco più in là, sul comodino, ho scorto il libro di John Williams e un foglio di carta con queste poche righe scritte a penna. Ho inspirato forte il tuo sapore di vaniglia e tabacco, per non dimenticarmi di noi, e di Napoli, quando alla fine di questo viaggio ci dissolveremo come nuvole sopra il mare, e allora torneranno tutti assieme, per un momento, gli odori, i sapori, il salmastro che, tu ed io insieme, abbiamo sentito e assaporato nella vita. La Nostra.

(leggilo anche su su Risme)








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