Kobe, un ricordo

“Le gioie della vita? Michelle Pfeiffer, il cioccolato… e Kobe in campo aperto”

-Federico Buffa


Sono trascorsi già quattro anni da quel 26 gennaio 2020. Ben quarantotto mesi o, se preferite, millequattrocento sessantuno giorni da quando Kobe Bryant non è più fra noi. Quattro anni dilatati, difficili, in cui si è visto, letto e ‘scrollato’ di tutto. Ciò detto, la dipartita di Kobe non sembra aver esaurito la narrativa attorno al figlio di Joe “Jellybean” Bryant. Anzi, l’epica è ben lungi dall’esaurirsi e la Mamba Mentality, oggi più che mai, sembra essere la versione cestistica dello sdoganato Veni, vidi, vici con cui Giulio Cesare annunciava le sue straordinarie imprese. Per ciò che mi riguarda, nessuna immagine, nessuna biografia, nessun videoclip o epitaffio da social network, mi ha ancora permesso di processare davvero la perdita, di mettere alle spalle il ‘mio’ lutto.

E dire che all’inizio della sua carriera ero scettico sulla matricola da Philadelphia, classe ’78. C’era qualcosa che stonava in tutta quell’aneddotica sul fenomeno cresciuto in Italia fra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, e Reggio Emilia, sempre al seguito del padre giramondo dei canestri europei. A diciassette anni il chiacchieratissimo Kobe aveva già programmato tutto. Così sicuro di sé, sbruffone qb, era soprattutto un lavoratore indefesso, in perfetta antitesi col me quindicenne che, invece, aveva poca confidenza con la spavalderia, la strafottenza. Si, ok, nel basket pure io ero bravino, ma non lavoravo in palestra quanto avrei potuto e dovuto e, soprattutto, per me la pallacanestro era un favoloso passatempo, un mezzo, non un fine. Un modo unico di divertirmi, fare amicizie e, perché no, di infondere un po’ di sicurezza nelle mie capacità. Forse era solo invidia quella che provavo nei confronti del giovane Bryant. Sapere quanto si prendeva sul serio, vedere il modo in cui viveva la pallacanestro mi faceva storcere il naso. Riconoscere che là fuori c’era un ragazzo che lavorava molto più duramente di tutti gli altri mi era insopportabile. Quindi poco peso diedi, all’inizio, leggendo American Superbasket o guardando le partite su TMC2, all’hype generatosi attorno a quel ragazzo americano che parlava così bene l’italiano, che osava addirittura invitare al ballo liceale di fine anno una stellina del pop come Brandy e che, ancora minorenne, si era dichiarato per il draft NBA, saltando a piè pari l’università. Tuttavia, nonostante le iniziali reticenze, i dissapori fra me e Kobe erano destinati a dissolversi in fretta. A farmi cambiare idea, bastò un caldo pomeriggio di settembre a Milano.

Da lì in poi, infatti, divenne per me una sorta di ‘fratello maggiore’, una figura con la quale, per alcuni anni, mi sarei confrontato, nello sport e nella vita di tutti i giorni. Un ragazzo speciale ma non per questo dissimile da noi, coi suoi punti di forza e le sue debolezze. Ogni mio traguardo, sul parquet, fra i banchi dell’università, o qualsiasi altra grande soddisfazione, avrebbe contribuito a tessere un legame invisibile ma saldo coi suoi successi: il premio di MVP del 2008, gli 81 punti messi a referto contro Toronto nel 2006, i due campionati vinti a LA da MVP delle Finals, nel 2009 e nel 2010. Allo stesso modo le mie batoste, professionali, affettive, sarebbero state rappresentate dai suoi eccessi; l’egoismo in campo, i litigi coi compagni e coach Phil Jackson che costarono il posto a Shaquille O’Neal, la sua competitività tossica, fino al presunto caso di stupro che lo vide entrare e uscire dai tribunali del Colorado a lungo, almeno fino a quando le accuse nei suoi confronti non vennero ritirate. E senza dubbio alcuno furono proprio queste ‘luci e ombre’ a rendermelo più umano, ad avvicinarlo ancora di più. Anch’io avevo subito cocenti delusioni, perso la fiducia in persone che pensavo preziose, più in generale, avevo vacillato parecchie volte eppure, come Kobe, mi ero rifiutato di darla su. E soprattutto fu merito suo se per la prima volta mi sembrò possibile contemplare l’idea di vivere di sola passione. Il cinque volte campione NBA mi mostrò che una passione, in quanto dedizione pura e miracolosa, potesse rappresentare e incarnare l’andatura e il respiro dell’universo intero.

In seguito, come sempre accade, anche se accettarlo mi fece sentire inadeguato, persino la sua parabola sportiva prese il viale del tramonto, e con essa la nostra luna di miele atipica. O più semplicemente era la vita che andava avanti e che si srotolava sotto i nostri occhi senza pretendere che la seguissimo. E immobili non potevamo stare. Ecco, quindi, che per Kobe arrivarono gli infortuni, le stagioni perdenti, il farewell tour lungo sei mesi, fino all’apoteosi un po’ posticcia culminata coi sessanta punti nell’ultima partita della sua carriera contro gli Utah Jazz. Io, intanto, mi ero ritirato dalla pallacanestro giocata, senza infamia e senza lode, appendendo metaforicamente le scarpe da basket al chiodo, per buttarmi su un’altra passione, la musica e, fra una sala prove e un concerto, mi aggrappavo forte al corrimano della vita provando a resistere ai suoi scossoni; l’ennesimo trasloco, un lutto, la fine di una storia amorosa. Fu così, quindi, che accadde. Kobe ed io ci allontanammo, fino a perderci di vista. Curioso (e doloroso) ricordare che, qualche settimana prima che l’elicottero si schiantasse a Calabasas, California, e si portasse via Kobe, sua figlia Gigi, e la vita di altre sette persone, lo ‘sentii’ di nuovo: mi guardai in streaming, per la prima volta, Kobe Doin' Work, un vecchio documentario sportivo diretto da Spike Lee in cui il regista di Brooklyn filmava una giornata intera del campione gialloviola. Ma lo smalto brillante della sua pallacanestro e del mio occhio erano ormai opachi e noi, mi costò ammetterlo, quasi due estranei. La sera del 26 gennaio, poi, in una delle tante chat Whatsapp che costeggiano le nostre vite arrivò il messaggio.

No… è morto Kobe Bryant!

Sperai in un errore. Magari l’ennesima fake news che, come i mattoncini della Lego, infestano le intercapedini della moderna comunicazione. E invece era tutto vero. Lo schiaffo ricevuto fu forte. Che ingiustizia andarsene così, pensai, dentro ad uno stupido elicottero. Lo avrà capito che stava morendo? O avrà fatto di tutto per proteggere sua figlia? L’ultimo disperato tagliafuori di una vita corsa a cento all’ora. Ma quella razionalizzazione, come la coperta di Linus, sentivo che non copriva tutto, e quindi aprii il portatile, mentre Giulia andava a dormire. Fino a notte fonda lessi ciò che c’era da leggere sulla stampa estera, Bleacher Report, The Ringer, per lo più, i commenti su Reddit, La Giornata Tipo e persino gli articoli/coccodrillo sulla stampa italiana, insipidi 'copia e incolla' fatti dai siti USA. Nel buio della cucina, sentii intanto la mia tristezza espandersi. Ancora oggi quella tristezza, ormai endemica, mi fa compagnia, sempre più nitida e dura; meno morbida e onirica, ma sorda, ottusa, eppure chiara, ben definita, come una sagoma nel buio che avanza indolente e inesorabile.

Ma ora, come detto, voglio tornare al settembre del 1997. Quando a Milano conobbi il mio Kobe, che Mr. Bryant, quello vero, non l’ho conosciuto davvero mai. A conti fatti, fu anche l’unica volta in cui ci sfiorammo. Reduce dal suo primo anno di professionismo, era in Italia come testimonial di Adidas e del suo torneo di basket tre contro tre itinerante, lo Streetball. Solo una manciata di mesi prima, aveva gettato al vento le esigue speranze di titolo dei suoi Lakers sbagliando tre tiri nell’ultimo minuto nella serie di primo turno contro i Jazz (Utah, sempre lei…) che erano costati l’eliminazione ai playoff per LA. Io, da buon nerd NBA, in quell’anno avevo vivisezionato tutto il materiale a disposizione (non granché per i mezzi dell’epoca) e per il talento da Philadelphia avevo avuto uno sguardo attento e lucido. Immaginate la mia curiosità nel trovarmelo davanti, con quel fisico asciutto e dinoccolato, un fascio di nervi pronto a sprigionare il suo talento da un momento all’altro. Da spettatore privilegiato lo osservai gigioneggiare sul campo da basket imbastito per l’esibizione dallo sponsor. Nonostante la sinuosità con cui deambulava nulla lasciava presagire che, dopo i soli sette punti di media tenuti in stagione, il ragazzo fosse in rampa di lancio per diventare il miglior giocatore del pianeta. Peraltro, in quegli occhi, ora così vicini, intravidi qualcosa, un guizzo, una scintilla che ardeva, nulla che si potesse immaginare coesistere nelle pupille di un diciannovenne. Eppure, solo un anno più tardi, avrebbe raccolto il testimone dal miglior giocatore della storia del gioco, sua maestà Michael Jordan. Quella consapevolezza non venne digerita subito. Mi ci vollero diverse ore per metabolizzarla. Fu una questione di percezione, come un’epifania a cui si assiste e per la quale i semi germoglieranno solo più avanti. Il tutto avvenne in modo spontaneo. Successe che ci guardammo. Io e Kobe. E in più di un’occasione. Al primo eye contact non diedi troppa importanza. Ok, pensai, è solo il campione in carico dello Slam Dunk Contest. Certamente credevo che il suo cuore, il suo umore, fosse quello del ragazzino che a febbraio si era divertito al Rookie Game di Cleveland, in mezzo ad altri giovani fenomeni dal sicuro avvenire (fra i tanti, Ray Allen, Stephon Marbury, Steve Nash e Allen Iverson) in quel romanzo che è l’NBA colma di personaggi indomiti, intrisi di una vitalità luminosa e scintillante. Ragazzi come noi, ma anche giovani divinità inconsapevoli del posto che per puro caso gli è toccato in un mondo che guarda altrove, anzi non guarda proprio, perché non ha occhi. I nostri, di ’occhi’, invece, si incrociarono in altre due occasioni (lasciatemi dire che in questo, invero, fui avvantaggiato dall’altezza, centonovantaquattro centimetri che, in mezzo alla folla assiepata sugli spalti, mi permisero di svettare come un Robert Horry nella foto di classe delle medie). Il mio sguardo insistente, liquido, quasi parossistico, in qualche modo lo colpì. A un tratto, Kobe si prese un tiro da distanza impossibile e la palla mancò il ferro di un metro abbondante. Mentre tornava in difesa, d’impulso, ruggii in italiano:

«L’anno prossimo!»

Lui mi guardò accigliato. Conosceva bene la mia lingua. Gasato dalle sue attenzioni continuai, questa volta in inglese.

«You've got to remember stuff like that!»

Mi guardò ancora. Era troppo intelligente, studioso del gioco, per non sapere che avevo appena citato alla lettera Shaq il quale, dopo i suoi tre airball contro i Jazz lo aveva difeso con la stampa dicendo che grazie a quegli errori sarebbe diventato più forte. Dopo il mio urlo, il sorriso che colsi sul viso di Kobe mi lasciò di stucco: era di una timidezza feroce. Ogni tanto guardavo Marco, al mio fianco, che guardava Kobe. Tutti stavamo guardando Kobe, come satelliti risucchiati da un’orbita gravitazionale irresistibile. L’azione successiva, l’ex alunno della Lower Marion High School si fece dare il pallone e con un palleggio incrociato che ingannò il difensore, si prese l’area e decollò inchiodando una schiacciata in reverse. Quando si girò, dopo essere atterrato sinuoso come un aggraziato deltaplano, ci scambiammo un altro sguardo. Niente più timidezza, in quegli occhi, solo paurosa intensità, occhi da Medusa; ebbi la netta sensazione di assistere all’inizio di ‘qualcosa’. But something big. Sempre fissandomi negli occhi, alzò un poco il mento, come a dire, amico, e questo è niente. Nell’azione che seguì difese con pigrizia e il suo avversario andò a segnare un comodo lay up. Dio quanto è arrogante, pensai. Ero rapito da quella tracotanza.

Finì l’esibizione. La squadra di Kobe vinse ‘tanto a poco’. Mentre usciva dal campo mi cercò ancora. I suoi occhi mi trovarono; un altro cenno. Stentavo a crederci. Fu il suo modo di salutarmi, senza farlo davvero. E così andò che grazie a quel pomeriggio capii un sacco di cose su di lui e quindi anche su di me. Capii come io fossi ancora un essere indefinito che anelava di trovare la sua strada. Kobe, più grande di due anni, l’aveva già imboccata la sua, invece. Che dovevo smettere di perseverare nell’errore di sovrappormi ai grandi campioni che studiamo, ammiriamo. Tempo perso… Il giorno seguente lo sponsor organizzò una sessione di autografi. Marco tornò a Milano mentre io preferii restarmene a casa. Sfumò così la possibilità di stringergli la mano e farmi firmare un poster (Marco, piuttosto, ma ce l’hai ancora?). La verità è che non me ne importò granché, che tanto la mano era come se ce la fossimo stretta lo stesso. Il giorno dopo, spiaggiato sul divano, intuii altre cose di lui e, inevitabilmente, su di me. Realizzai che io ero ancora dentro la narrazione della mia vita. Kobe ne era uscito per prenderne il controllo. Io che dovevo ancora trovare il mio posto nell’universo. Comprendere a pieno la parola sacrificio. Bryant di lì a poco, avrebbe reso il mondo del basket il suo personalissimo parco giochi. Nondimeno, gli sarebbe costato rinunce indicibili.

Anche se dopo Milano non lo rividi mai più, non mi persi niente dei primi quindici anni della sua maestosa carriera. Solo che lo avrei fatto con una coscienza di me diversa, più radicata nella realtà, meno evanescente, che mi permise di capire che il talento, molto spesso, è un dono che piove dal cielo. Il rischio è di tirare avanti. Lui non si era fermato e, mentre noi tutti eravamo ancora fermi su quegli spalti, si era mosso di conseguenza. Poi, anche per me, la tensione si allentò e come le storie d’amore che sembra impossibile finiscano, davvero impossibile, come sembra impossibile che le persone muoiano, la storia d’amore finì.

E oggi?

Oggi sono quattro anni che Kobe Bryant non c’è più. Restano gli highlights un po’ sgranati su Youtube, i record, i trofei, la maglia ritirata col doppio numero, 8 e 24, che penzola dal soffitto della Crypto.com Arena e il ricordo dei nostri sguardi che si sfidarono in quel pomeriggio afoso con il Castello Sforzesco a farci da sfondo. Però, malgrado siano passati già quattro anni dalla sua dipartita, mi disorienta sempre realizzare che, quando guardo una partita di basket oppure quando corro ascoltando un podcast sull’NBA, o scrivo un racconto come questo, non potrò più pensare: chissà cosa starà facendo Kobe?

Che altro resta da dire?

Ah, sì.

Mamba out

.


 


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