La vasca con zampe

(pubblicato su Bomarscé il 02/09/2020) 

Il locale in cui si erano dati appuntamento era nato tre anni prima, proprio come la loro relazione. Minuscola caffetteria letteraria in cui servivano ottime bevande calde e pessime birre. C’erano libri ovunque lì dentro, sugli scaffali, sui caloriferi, sulle mensole; il registro di cassa era appoggiato su tre tomi minacciosi e pieni di polvere e persino il ragazzo dietro al bancone sembrava uscito da un romanzetto noir, coi suoi baffetti da sparviero, la montatura degli occhiali tenuta in piedi con del nastro adesivo e un percettibile tic che gli faceva muovere all’unisono sopracciglio e occhio destro. Nonostante il caos apparente e un po’ di sporcizia, l’ambiente aveva il suo fascino e lungo le pareti, erano appese cornici minimali, che ritraevano, in bianco e nero, volti noti di molti scrittori. Quando lei varcò l’ingresso, lui era già seduto e, a giudicare dalla bottiglia di birra vuota, doveva essere arrivato con discreto anticipo. Dopo i convenevoli, passarono alle consumazioni. Lei optò per una tisana zenzero e limone, così l’uomo la fece accomodare e si diresse al bancone per ordinare la tisana e un’altra birra.
Non appena furono entrambi al tavolo, per smorzare un po’ di tensione, l’uomo la convinse a giocare a riconoscere l’identità di quei volti appesi alle pareti. Fra quei visi grinzosi e vissuti scovarono facilmente Poe, Hemingway, Virginia Woolf e Jack Kerouac. Fecero un po’ più fatica con Jane Austen e un giovane Pirandello. Ma c’era un ritratto che proprio non riuscivano a decifrare. Come quando si ha a che fare con un volto familiare ma non si riesce in alcun modo ad associarlo al nome giusto. Avendo seguito la discussione, e vedendoli in difficoltà, il ragazzo che lavorava nel locale passò di lì con una scusa e, fra un ammiccamento involontario e un altro, fu ben lieto di rivelare loro che il protagonista della foto fosse Victor Hugo.
Di nuovo soli, rimasero immobili per qualche tempo, l’uno di fronte all’altra, con il fumo caldo che si alzava dalla tisana a mascherare quella stasi che li avvolgeva. Lei cercava un modo per riprendere la discussione dopo che, circa sei mesi prima, si era interrotta. Lui, facendo spallucce persino alla sua coscienza, ingannava i tormenti pensando a Hugo e a come avesse fatto a non riconoscere il più grande romantico francese. Poi, quel lungo e interminabile silenzio mostrò il fianco: la donna abbozzò un maldestro brindisi afferrando la tazza con entrambe le mani e avvicinandola all’uomo. Lui l’assecondò e, quando le sue dita toccarono il vetro gelido della bottiglia, quella sensazione di freddo lo riportò coi ricordi indietro di qualche anno.

Se qualcuno si fosse trovato su quel pianerottolo mentre le porte dell’ascensore si spalancavano, la prima cosa che avrebbe visto uscire sarebbe stata una nuvola d’imbarazzo, schiumosa e svolazzante, e solo alcuni secondi dopo una coppia di giovani adulti. Non c’era nessuno nei paraggi. I corridoi del sesto piano di quell’hotel parigino erano pressoché deserti, e quando i due varcarono la porta dell’ascensore fu soltanto il rumore ammortizzato e trattenuto dei loro passi a contatto con la moquette verde del pavimento a tener loro compagnia. Era quasi mezzanotte e i due erano appena arrivati dall’Italia dopo un viaggio in aereo ricco di turbolenze e snack scadenti. Si conoscevano da poche settimane, merito di un amico in comune, e si erano piaciuti sin dalla prima uscita.
Il viaggio lampo a Parigi era soltanto il loro quinto appuntamento: ancora niente sesso, con lei molto abile a eludere alcuni tentativi di lui, andati a vuoto. In compenso tanti baci, talmente tanti, che il burro di cacao divenne uno spauracchio calorico. L’occasione francese saltò fuori perché lui, in tempi non sospetti, aveva già comprato un biglietto per il concerto degli LCD Soundsystem, gruppo indie rock statunitense di cui era un grande fan. Lei non li conosceva granché, ma come pretesto per una fuga parigina non gli parve male. Lui si offrì di pagare tutto, ma lei si rifiutò e trovò prima un biglietto per lo stesso volo (sborsando il triplo rispetto a lui) e successivamente acquistò il biglietto per il concerto.
L’albergo l’avevano scelto assieme, o meglio, lo aveva scelto lei col benestare di lui. Dalle foto sembrava un posto ok, glamour, caro ma non troppo, nel cuore del quartiere Latino, con un bel letto king size e persino un bagno con un’appariscente vasca vittoriana con zampe da leone. Lei si era già masturbata un paio di volte pensando di essere posseduta in quella vasca, lui almeno il triplo ma senza dare particolare importanza alla scenografia. Quando arrivarono davanti alla porta della camera, le loro menti cariche di desiderio ronzarono impazzite all’unisono, ma non immaginavano che le loro aspettative sarebbero state presto disattese. Il ragazzo appoggiò la tessera magnetica sopra la serratura elettronica e aspettò di sentire click. Poi, col braccio sinistro aprì la porta e lasciò fosse lei la prima a entrare.

«Ti ricordi il nostro primo viaggio? Parigi?»
Lei fu colta di sorpresa dalla domanda e rovistò nella sua memoria alla ricerca di ricordi pertinenti. Non era una smemorata, anzi, era in grado di immagazzinare nella sua testa un’infinità di dettagli ma in quel momento era come se una strana frequenza disturbasse i suoi pensieri.
«Vagamente, è passato un po’ di tempo.»
«Dai, la vasca con le zampe? Proprio in mezzo alla camera di quel motel travestito da albergo: quella non te la puoi esser dimenticata…»
Stava cercando di mettere a fuoco le immagini nella sua testa. Ma era tutto offuscato e poco chiaro, come quando provi a mettere i negativi in controluce per sbirciare in anteprima una foto. Optò per una mezza verità.
«Sì, mi ricordo. L’albergo non era proprio il massimo.»
«Ma che dici? Se ti sei lamentata per settimane.»
La donna non rispose e sperò in silenzio che il discorso virasse presto altrove. Ma non venne accontentata.
«E meno male che non l’avevo scelto io. Fu colpa di Booking e di quelle foto fuorvianti. Il bagno era preso da un’angolazione per cui pensavi fosse separato dal resto della camera. Invece no, era un’unica stanza…»
«Senza bagno?»
«Il bagnetto c’era, ma era un bugigattolo senza finestre. C’era una porticina e dietro un wc. Stop. Il lavandino era sempre nella stanza principale. Dovevamo fare i bisogni in una cabina e poi sgattaiolare fuori anche solo per lavarci le mani. Ma davvero non te lo ricordi?»
«Certo che me lo ricordo. Stavo solo facendo mente locale.»
«E ti ricordi come fu la prima notte?»
«Sì… cioè, voglio dire. Ovvio». Fu la seconda menzogna in pochi secondi.
Lo sguardo di lui, mentre sorseggiava la birra, sembrò cogliere in quelle esitazioni il fatto che lei stesse mentendo e che in realtà non ricordasse davvero quel primo giorno a Parigi. “Che strano”, pensò, in lui era tutto ancora così nitido.

Quello che almeno potenzialmente sembrava essere il set erotico perfetto, per la coppia si rivelò invece fonte estrema d’imbarazzo. La stanza non concedeva privacy, i loro corpi, in un modo o in un altro, si sarebbero dovuti dare in pasto a vicenda. Senza quell’attesa, quelle febbrili aspettative, quell’eccitante curiosità che spesso fa da sfondo alle prime volte. E così, il ragazzo accettò di andar fuori a fumarsi una sigaretta mentre lei si lavava in mezzo a quell’insolita stanza d’albergo.
Non aveva sigarette con sé, solitamente le scroccava, faceva parte dell’esercito dei tanti che fumano solo quelle degli altri. Dovette quindi riprendere l’ascensore, uscire dall’albergo e mendicare una fumata alla buia e fredda notte parigina. Passò qualche minuto senza che incontrasse anima viva, poi, camminando in direzione della Senna, con la guglia di Notre Dame illuminata da una tenue luna autunnale, vide un uomo nero con la testa calva come un ginocchio e con una faccia gommosa e infantile, che stava passeggiando da quelle parti col suo cane, un labrador dal pelo chiaro che, sotto le luci dei lampioni gli ricordò il colore del latte appena munto. Col suo francese livello Google translator riuscì a fermarlo e a chiedere gentilmente una sigaretta. Fu fortunato, l’uomo tirò fuori un pacchetto ancora nuovo, lo sbucciò, e gliene porse una. Il ragazzo, per fare un po’ di conversazione, gli chiese quale fosse il nome dell’animale, ma la sua comprensione orale fece cilecca e quando l’uomo gli rispose sì limitò ad annuire come se avesse capito. Così tornò verso l’hotel e rimase davanti all’ingresso a gustarsi la sigaretta. Era insolitamente gelido per essere settembre. Con il corpo scosso da tremiti, le mani ghiacciate e i denti che battevano, il ragazzo ebbe comunque la sensazione di stare meglio fuori che dentro quella stanza e la sua cortina d’imbarazzo. Pensò che fosse un peccato che un hotel così glam non avesse uno di quegli ingressi con le porte girevoli stile americano, di quelle che impediscono a intemperie, rumore e inquinamento di entrare abbattendo i costi di riscaldamento. Da qualche parte aveva letto che l’inventore di questo rivoluzionario sistema lo aveva fatto spinto dalla sua insofferenza nel tenere la porta aperta alle altre persone, soprattutto alle donne. Sorrise mentre ripensava a questo aneddoto. A lui piacevano le porte girevoli, ma per motivi diversi. Forse perché gli permettevano di avere una visuale di trecentosessanta gradi sul mondo che lo circondava ma, al tempo stesso, gli consentivano di tenerlo comunque a distanza, di non sporcarsi le mani.

«Ti spiace se ordiniamo dell’acqua? Questa tisana è ancora troppo bollente e io ho una sete…»
«Certo.»
L’uomo si alzò mentre lei lo seguì con gli occhi per un po’. Poi si guardò attorno, ma in quel posto erano gli unici avventori oltre al ragazzo dietro al bancone. Lontana da occhi indiscreti, fece così la sua mossa: tirò fuori da sotto la camicetta il ciondolo a forma di mezzaluna che teneva al collo, lo aprì e versò il suo contenuto. Osservò nervosamente la polvere disciogliersi a contatto con il liquido. In quei pochi secondi, le sembrò che il tempo scorresse a rallentatore e che tutto, all’interno del locale, fosse cristallizzato e immobile. Mentre il ciondolo s’inabissava in mezzo ai suoi generosi seni, controllò dove fosse l’uomo e lo trovò ancora davanti al bancone in attesa che il barista gli porgesse la bottiglietta d’acqua: non si erano accorti di nulla. Provò a rilassarsi pensando ad altro, rammentando come fosse arrivata sino a quel punto.
L’idea di rivedersi, dopo molto tempo, era venuta proprio da lui. L’uomo le aveva scritto un messaggio dieci giorni prima. Lei ci aveva messo tre giorni a rispondere e una settimana intera a preparare tutto nei minimi particolari. Aveva scelto il locale sapendo che era molto poco frequentato, sull’orlo del fallimento (proprio come lei) e, cosa più importante, che al suo interno non si effettuava servizio al tavolo. Lavorando part-time in una farmacia aveva avuto inoltre il tempo di documentarsi a sufficienza e, con facile accesso a un’infinità di sostanze, era riuscita ad assemblare un prodotto letale di ottima qualità, coprendo ogni traccia e coordinando ogni aspetto alla perfezione.
«Ecco qua», l’uomo, ignaro di tutto, tornò con una mezza minerale che aprì con galanteria e porse alla donna.
«Grazie», disse lei.
«Hai uno sguardo strano? A cosa pensi?», fece lui.
«Niente di particolare», rispose mostrando un sorriso finto e tradendo così un filo di tensione. L’uomo, stavolta senza fare troppe cerimonie, prese la birra e ne bevve un sorso direttamente dalla bottiglia. Lei abbassò lo sguardo e, senza dire nulla, fece lo stesso con la sua tisana, deglutendo (colpevolmente) in silenzio.
«Come stai?»
La donna si prese un po’ di tempo prima di rispondere. Nonostante si aspettasse che, prima o poi, questa domanda piovesse dal cielo. Fece molta fatica anche solo a muovere le labbra. Poi con un filo di voce disse: «Abbastanza bene».
In realtà avrebbe voluto essere più precisa, avrebbe voluto dirgli che, per colpa sua, non si ricordava più cosa volesse dire star bene, che non si era ancora ripresa e che trovava davvero assurdo il fatto che lui fosse riuscito a sopravvivere sei mesi senza la loro vecchia routine. Senza di lei. Gli avrebbe tanto voluto raccontare quanto la sua vita si fosse liquefatta: una mattina qualunque di gennaio si era alzata all’alba, per la prima volta in tre anni da sola, e si era messa a spolverare per tutta la casa, e aspirare via la polvere dalla loro stanza, succhiandola via dalla scrivania, aspirando col bocchettone il laniccio dalle costole dei libri che avevano comprato e letto assieme e dai vinili che lui collezionava e che non aveva ancora rivendicato. Alla fine le sembrò quasi di levare la polvere anche da sé stessa, per ricominciare da capo, come non avrebbe mai voluto, e nemmeno osato, immaginare.

«Sono contento di saperlo», disse l’uomo e poi si mise a giocherellare con la bottiglia di birra. Era mezza piena ma anche mezza vuota. “Mi assomiglia” pensò la ragazza.

Quando tornò nella stanza la trovò già a letto. Lo stava aspettando nuda sotto le poco sobrie lenzuola rosso fiamma. Rimase fermo nei pressi della porta senza sapere bene cosa dire, col cuore in tumulto e con l’impetuoso rimescolio dei sensi a fare da sottofondo. La osservò a lungo, scrutando il suo viso grazioso, impreziosito da una pioggia di lentiggini rosse e seguendo i suoi morbidi riccioli biondi che le ricadevano fin quasi sul pavimento. Sfoggiò un sorriso incerto e si preoccupò non poco quando, nonostante il turbinio di emozioni, si accorse che laggiù ancora non si era smosso nulla. Forse era successo tutto troppo in fretta. Forse avrebbero dovuto procedere più gradualmente senza accelerazioni così improvvise. Mentre nella sua testa si sovrapponevano domande di questo tenore, da sotto le coperte emerse piano piano il braccio bianco e sinuoso della ragazza. Lo distese verso la parete dietro al letto e con le dita andò a premere il tasto di un interruttore. Un ronzio, come di un motore elettrico in funzione, scosse la stanza. La ragazza aveva azionato un meccanismo che dal mobile ai piedi del letto stava lentamente facendo emergere una TV a schermo piatto. L’immenso televisore si palesò gradualmente in mezzo alla stanza come lo struggente sorgere di un sole nero. Così gli spiegò che avrebbe potuto tranquillamente lavarsi nella vasca con le zampe, sfruttando il mastodontico elettrodomestico come un paravento improvvisato, senza che nessuno entrasse nel campo visivo dell’altro. La strana situazione fece ridere entrambi, cosa che contribuì non poco a diluire il carico emotivo che si era venuto a creare. Per metterlo ancora di più a suo agio, lei accese la tv su un canale a casaccio e alzò il volume. A quel punto lui sparì all’ombra dell’enorme televisore e fu libero di spogliarsi e di lavarsi ma a soli tre metri scarsi di distanza dalla sua compagna di viaggio. Mentre si stava insaponando i corti capelli neri si chiese se esistesse in quella camera un altro bottone che, se azionato, fosse in grado di regalargli una confortevole e duratura erezione.

Stava parlando da un po’. Non sapeva determinare da quanto fosse in ascolto, a giudicare da quanto si fosse raffreddata la tisana poteva essere passata una settimana intera e, nel suo palato, zenzero e limone erano ormai sapori lontani e indefiniti. La bottiglietta d’acqua, invece, era lì accanto ancora intonsa. Lo ascoltava parlare, blaterare, eppure si sentiva sola, come se la distanza fra lei e le aspettative che si era creata fosse ormai incolmabile. Non era pronta ad ascoltare quei discorsi: nel corso della sua vita aveva imparato a comprendere quanto la verità potesse fare male, come quando da bambina scoprì che gli arcobaleni non si possono percorrere a piedi, in un senso o nell’altro, ma solo guardare svanire, sfuggenti e scivolosi come le bugie che abitano questo mondo.
«Se sto così male è perché non era te che dovevo lasciare per stare bene, anzi, ero io che mi dovevo lasciare, dovevo lasciare andare la merda che mi è piovuta addosso, i soldi che non ci sono, l’accontentarsi al lavoro; ero io che dovevo lasciare andare i miei morti, lasciarli finalmente riposare, in pace loro, e in pace io; ero io che dovevo lasciare andare me, in tutti i sensi, quelli dolorosi e quelli bellissimi.»
Lei lo ascoltava. Ma non lo stava a sentire davvero. Mentre la litania continuava, la ragazza appoggiò i gomiti al tavolo e si prese la testa fra le mani, sorreggendone il peso con i palmi congiunti e aperti. Con gli occhi andò agli occhi di lui, che stava ancora parlando, ma vi indugiò ancora un attimo prima di avvertire una gran rabbia che le montava dentro. Poi andò oltre, oltre quelle saccenti e noiose colline sulle quali aveva speso gli ultimi anni. E allora si rese conto di quanto tempo avesse buttato a inseguire sogni non suoi, a cercare di accontentare gli altri come i cani, a scodinzolare alla persona sbagliata, a lasciarsi sempre in un angolo, lei che in realtà avrebbe voluto stare sulla cima della montagna, proprio lì su quella vetta dove l’ossigeno è rarefatto, la vista è splendida e la testa è sgombra di pensieri. Invece, per colpa sua, era rimasta giù a valle, seduta su quelle dannate colline, alienanti e sempre uguali. Nonostante ciò c’era qualcosa che non le permetteva di processare il distacco dalla sua vecchia vita. In quel locale avrebbe avuto la sua chance di redimersi, di cambiare, cavalcando l’unico modo per staccarsi da lui, come una navicella spaziale che per salvare il proprio nucleo deve sganciarsi dal resto del corpo, un corpo che tanto brucerà velocemente e che scomparirà per sempre dimenticato nell’oblio e nel silenzio. O forse no. Forse quel legame non poteva essere reciso. Se non brutalmente. E il veleno, a breve, avrebbe lavorato in tal senso.

In qualche modo l’erezione arrivò. Dopo che si fu asciugato frettolosamente, la raggiunse nel letto e saltando i preliminari fecero l’amore per la prima volta. Date le premesse e la situazione che si era creata in quella prima notte assieme, il sesso non fu memorabile, piuttosto lo sfogo di due corpi che finalmente si lasciavano andare, allentando la tensione rotolandosi fra le lenzuola rosse di quel bizzarro hotel sulla rive gauche. Nonostante il ragazzo si fosse dato un gran daffare, ebbe come la sensazione che l’amore se ne stesse in disparte in quella grande stanza, volteggiando ma tenendosi comunque a debita distanza dalle loro evoluzioni. Se non altro, questo appena percettibile disagio conferì longevità alla sua performance e non intaccò la tanto agognata erezione. Dopo l’orgasmo rimasero così avvinghiati per lunghi istanti. Quando il ragazzo riaprì gli occhi la vide atteggiare le labbra a un mezzo sorriso mentre infilava la guancia nell’incavo della sua clavicola che, nel corso di quella movimentata notte, pareva essersi modellata attorno ai suoi lineamenti. Poi tutto finì, il ragazzo rotolò lontano dal calore delle lenzuola e raggiunse quella parte del letto che ancora era temperata e fresca. In quel momento alzò lo sguardo verso gli specchi sopra al soffitto di cui era tappezzata la stanza. Vide la vasca con le zampe di leone, ma il suo sguardo era in cerca d’altro, un ingrediente che gli sembrava fosse mancato a quel piatto prelibato che avevano condiviso assieme. Lo vide, l’amore riflesso in quello specchio, gli sembrava di riconoscerlo, come una bella nostalgia che non si concretizza mai davvero. Se ne stava sopra le loro anime e quando il piacere carnale abbandonò del tutto il suo corpo scemando dai polpastrelli, pensò che quella mancanza in realtà avesse lasciato come un’ombra di rimpianto nella sua testa.

Erano rimasti un’altra volta in silenzio. L’uomo aveva smesso di parlare. L’espressione sul suo volto tradiva un certo malessere, gocce di sudore ne imperlavano la fronte. Quasi contemporaneamente il battito cardiaco della donna accelerò di colpo. “Ci siamo”, pensò. Poi, da qualche parte nella stanza le sembrò che venisse della musica familiare, note conosciute che andarono a riempire tutti i vuoti di sceneggiatura di quel locale. La riconobbe facilmente, un brano degli LCD Soundsystem, Oh Baby, una canzone che aveva ascoltato per la prima volta proprio tre anni prima. E allora le tornò alla mente tutto quanto, il concerto, Parigi, quell’assurdo hotel da papponi, la vasca con le zampe, la loro prima notte assieme…
«La senti anche tu?»
Ma l’uomo non sentiva niente. Come avrebbe potuto? Il proprietario del locale si era venduto lo stereo solo qualche giorno prima per pagarsi qualche debito. La guardò stranito, con la testa piegata leggermente di lato ad accentuare il suo stupore e la sensazione che qualcosa dentro di lui gli stesse sfuggendo dalle dita, ancora una volta. La donna colse in quello sguardo il proprio malessere, che era un po’ anche il suo, e si stupì che il veleno somministrato facesse già effetto, poi tornò a concentrarsi su quella musica.

Oh baby
Oh baby
You’re having a bad dream
Here in my arms
//////////
Oh piccola
Oh piccola
Stai facendo un brutto sogno
Qui tra le mie braccia

«Davvero non la senti?», fece di nuovo rivolta all’uomo.
«Ma di che parli? No, non sento niente».
Allora lei si sollevò un poco dalla sedia e, allungando le braccia, strinse con forza i polsi di lui.
«Mi dispiace», disse.
«Che significa?»

Oh sugar
You came to me
Could all be a bad thing
And do you harm
//////////
Oh, zuccherino
Sei venuta da me
Potrebbe essere una brutta cosa
Farti del male
Oh oh oh

Quando provò a ritornare seduta, ebbe un sussulto e perse l’equilibrio rovesciando lo sgabello e finendo rovinosamente per terra. Le vibrazioni della caduta fecero cascare in terra anche il ritratto di Victor Hugo, col vetro della cornice che andò in mille pezzi. L’uomo, spaventato, provò immediatamente a soccorrerla ma, non appena le fu vicino, la vide tremare come in preda a convulsioni mentre dalla bocca le usciva un filo di bava al retrogusto di zenzero.

Oh I’m on my knees, yeah
I’m on my knees
I promise I’m clean
And my love life waits
/////////
Oh, sono in ginocchio
Sì, sono in ginocchio
Prometto di essere sincero
Ma la mia vita amorosa aspetta

Ormai respirava a malapena, col viso gonfio e gli occhi iniettati di sangue. Allora l’uomo urlò al ragazzo del locale di chiamare subito un’ambulanza. Il giovane, terrorizzato, prese il cellulare e telefonò al 118, mentre lui, nel tentativo di farla respirare meglio, le teneva la testa sollevata.

And you’re already gone
Yeah, you’re already gone
We are already home
And my love life stumbles on
///////////
Te ne sei già andata
Sì, te ne sei già andata
Siamo già a casa
La mia vita amorosa ci inciampa su

Ma ormai era tardi. Con la testa appoggiata sulle ginocchia dell’uomo e gli occhi socchiusi riuscì a dirigere lo sguardo annebbiato dal veleno verso l’unico specchio posto alla parete del locale. Da quell’angolazione osservò il bel volto di lui, inconsolabile e impotente davanti a quello che stava accadendo. Nonostante la tragedia dell’aborto spontaneo e di tutto il dolore provato nell’averglielo nascosto, la donna sentì indistintamente di appartenergli. Poi, mentre la vita le roteava davanti come una porta girevole, le tornò alla mente una frase di Victor Hugo, contenuta in un libro che avevano comprato assieme, L’uomo che ride, che lui aveva sottolineato a matita e sulla quale lei spesso si era soffermata: Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione. L’anima è piena di stelle cadenti. L’ultima cosa che fece fu quella di esprimere un desiderio, ma il buio l’anticipò e, un attimo dopo, calò il silenzio.

Oh baby
Lean into me
There’s always a side door
Into the dark
Into the dark, shh
/////////
Oh piccola
Appoggiati a me
C’è sempre una porta laterale
Nel buio

Nel buio,

Shh 



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