Tutto Vero

(pubblicato su L'Equivoco il 16/07/2023)

Era già da un po’ che doveva prendere quei soldi falsi. A parte me, non lo sapeva nessuno. Fra le sue amicizie, le persone affidabili si contavano sulle dita di una mano. Qualche settimana prima, più per noia che per desiderio, aveva acquistato una banconota da cento, contraffatta. Per me era pura follia, ma non ci fu verso di fargli cambiare idea. Quando Cosimo si metteva in testa una cosa, era impossibile ragionarci.Nonostante le mie remore, però, mi sentivo un po’ in colpa: dopotutto, con quei soldi fasulli, subito ripuliti da un tabaccaio in periferia, mi ci ero divertita anch’io. Oltre al libro, Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, filosofo per cui entrambi stavamo in fissa, avevamo spremuto fuori una bella cena al ristorante, di quelle che non potremmo mai permetterci in condizioni normali, e un vinile dei Pearl Jam che avremmo regalato a mio padre per il suo compleanno. Partner in crime, quindi, potevo fare poco la spocchiosa.

Sì, ma quanti soldi servono per comprare soldi falsi?

Gli avevano spiegato che i quattrini finti venivano venduti al prezzo di un quarto del loro valore nominale: per raggranellare mille euro contraffatti, quindi, dovevi investirne duecentocinquanta, autentici come il precariato. Cosimo, che non voleva prendersi una fregatura, aveva fatto una serie di domande in giro. Qualche conoscenza, invischiata nel ramo, gli aveva raccontato che per cominciare a intrallazzare era basilare procurarsi prima tutto il necessario. Niente di complesso o astruso, tutt’altro: il fondamento poteva essere un semplice computer collegato a una buona stampante. Il problema, semmai, era acquistare stampe e presse coi simboli dell’euro, materiali che potevano far alzare non poche sopracciglia. Che poi, in realtà, anche in questo caso si trattava di un ostacolo aggirabile: bastava infatti ordinare i pezzi necessari dal deep web oppure da produttori non comunitari, come ad esempio dagli Stati Uniti, dove numeri e simboli delle nostre banconote non significano granché. S’imparavano un sacco di cose accompagnandosi con gli storpi. Non c’era che dire.

Ma Cosimo non era tagliato per il crimine. Semmai, l’urgenza per lui era di trovare un lavoro al più presto che per buttare fumo negli occhi a mio padre il vinile grunge no che non sarebbe bastato: sua figlia, infatti, iscritta a Filosofia e con un futuro radioso davanti a sé, non poteva di certo stare con uno spiantato, un poco di buono, un malavitoso in fieri. Dopo aver abbandonato l’università, al mio ragazzo servivano un lavoro e uno stipendio dignitoso, in modo da tranquillizzare anche la sua di famiglia, mica solo i miei genitori. Ma i pochi sforzi profusi, finora, erano stati pleonastici. Ogni volta che uscivamo insieme a cercarlo, il lavoro dico, il tutto si trasformava, deragliando inconsapevolmente, in una romantica passeggiata per il centro di Milano.

Ovvio che ci provava e che io facevo di tutto per spronarlo, ma lui si stancava subito delle risposte che raccattava in giro.

Lavapiatti? Cameriere? Magazziniere? Schiavo? No? Buono, grazie. Nel mendicare lavoro era la controfigura di se stesso. Non era proprio credibile, perché gli leggevi in faccia che lui un impiego proprio non lo voleva. Avrebbe ucciso qualcuno pur di piantarla lì con quella pantomima.

Non c’è niente di peggio, per quelli come lui, che vedersi costretti a cercare con ostinazione una cosa che non si vuol fare. L’autostima residua diventa melliflua e, a ogni porta sbattuta in faccia, scivola via, come acqua sporca dopo aver premuto lo sciacquone.

In quei momenti, nella mia testa, Cosimo rassomigliava a un condannato a morte, il quale sa di dover crepare, sembra quasi farsene una ragione, ma poi, a un passo dall’esecuzione, si sente ammonire dal suo boia: ok, io t’ammazzo volentieri ma prima mi devi comprare un’arma. Chessò io, un’ascia, un fucile, del veleno per topi. Fai tu insomma.

Così le giornate si rassomigliano tutte e, quando arriva sera, noi collezionisti seriali di caffè, accendini e fallimenti, rincasiamo disillusi e, soprattutto, poveri come la Repubblica Democratica del Congo.


Per farla breve, tornando a quei cento euro fasulli, e calcolando il rischio e le menate varie, non è che la mossa fosse stata così scaltra. Ma il non aver pagato dazio aveva portato Cosimo a crogiolarsi nell’idea che, forse, poteva andare avanti ancora un altro po’. Questa volta si era accordato per tramutarne duecentocinquanta in mille.

«In culo al lavoro» mi disse.

Mai come in quel momento, Cosimo si trovava in ristrettezze economiche. Qualche settimana prima, avevamo distrutto la macchina della madre. Per colpa di una fitta nebbia eravamo finiti dritti contro un muro. A differenza dell’auto, noi due ne uscimmo illesi. Cosimo, però, aveva litigato con l’etilometro in dotazione della volante dei carabinieri che era intervenuta dopo quel macello: si era così beccato un bel multone e la sospensione automatica della patente. E se per la macchina i suoi non avevano infierito, è altresì vero che il pagamento della multa se l’era sobbarcato tutto lui, dando fondo ai suoi risparmi. La cosa assurda è che, nonostante la nostra imprudenza, l’incidente, invece che minare il nostro traballante rapporto, aveva avuto l’effetto opposto: ci aveva riavvicinati dopo un periodo di sfasamento piuttosto tormentato. A quasi un mese dall’accaduto ancora capitava di sentirlo maledire la nebbia di quella sera. Non potevo biasimarlo, Cosimo era nato a Prato, non capiva che Milano e la sua caligine sono un tutt’uno, come un grumo di lava che fuoriesce dal cratere di un vulcano. Che per viverci in sintonia bisogna viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda. Che la città non è adatta a chi si scoraggia. Milano e noi milanesi, come in una simbiosi perfetta, viviamo nitide illusioni. Il fatto di vedere così poco il sole o la luna, nascosti da tutti quei palazzi, quelle luci accese di notte come tante stelle artificiali, ci attribuisce il diritto di credere che il tempo sia scandito diversamente che nel resto d’Italia. Che noi milanesi, se non immortali, siamo superiori, e che per risolvere i nostri problemi basterà aspettare domani o dopodomani. O, al massimo, il giorno dopo ancora.

Dopo un’interminabile scarpinata, arrivammo al parco Lambro da viale Turchia. Cosimo gonfiò il petto e si diresse a passo sicuro verso un gruppo di ragazzi che stava cincischiando all’ombra di un platano. Io, come di frequente capita a chi nasce e cresce nel capoluogo lombardo, non conoscevo proprio nessuno. Uno di loro, un tizio smilzo dai tratti ispanici con maglietta Supreme e treccine in testa, si girò verso di noi e con un cenno del capo abbozzò una specie di saluto. Ci lasciò lì a mantecare ancora qualche secondo, poi, si staccò dagli altri e, squadrandomi da capo a piedi, ci venne incontro.

«Oi fra’.»

«Ciao Carlos.»

«Come va?»

«Apposto.»

«Lei chi è?»

«Margherita, la mia ragazza.»

Sentimmo un ronzio farsi sempre più vicino, alzai lo sguardo, ma, a parte qualche spicchio di cielo, non mi sembrò di vedere niente. Poi, dal nulla, un drone entrò nel campo visivo e si bloccò, sospeso, proprio sopra le nostre teste. I ragazzi sullo sfondo ci guardavano ridacchiando. Solo allora notai che uno di loro teneva in mano un grosso radiocomando nero. Carlos lì incenerì con lo sguardo e, così com’era arrivato, il drone andò a disturbare altrove.

Cosimo gli diede corda e blaterò qualcosa, senza dilungarsi in dettagli. Sembrava, però, che tutti ignorassero il motivo della nostra visita. Qualcuno provò a venderci del fumo. Peccato che non fossimo lì per quello. Il motivo della nostra presenza erano i soldi. I soldi falsi. Danaro farlocco che, però, ci avrebbe dato ancora un po’ di ossigeno e quella spensieratezza di cui non ricordavamo neppure il sapore. Cosimo declinò l’offerta droghereccia e andò subito al sodo.

«Quindi?»

«Che co-sa? Parli della gra-na?» Carlos rispose al rallentatore, chiaro segno che la cannabis non fosse nelle sue tasche solo per essere venduta.

«Mannò, dicevo la mamma, come sta to ma’?» Cosimo, con tempi pessimi, si giocò la carta della simpatia, pronunciando quella frase con un marcato accento pratese.

«Mia mamma?» Carlos lo guardò sgomento, indeciso se arrabbiarsi o meno.

«I soldi ciccio. I danè!» disse Cosimo strofinandosi indice e pollice di entrambe le mani.

«No, aspetta, cazzo c’entra mia madre?»

«Dai, scherzavo. Concludiamo?»

«Claro, ma por qué hablaste de mi madre?»

«Eddai Carlos, diahane, scherzavo! Sono qui per la faccenda dei soldi. Icché ti fo’? Un disegnino?»

Carlos alzò un poco il mento e prese a fissarmi. Nonostante le premesse, nel suo sguardo non lessi segnali di minaccia, piuttosto, dietro quegli occhi, incontrai un vuoto cosmico, quello spazio in cui, in confronto al resto dell’universo, la densità di materia è infinitesimale. Poi, sbatté le palpebre un paio di volte e, come a fine di un incantesimo, si lasciò andare in un sorriso che mise in evidenza una manciata di denti marci infilati a casaccio in quella cloaca impestata che aveva al posto della bocca.

«Tranquilo amigo, facciamo tutto ora. Aspettate qui.»

Carlos s’incamminò in direzione della pista da skateboard per poi sparire del tutto dal nostro campo visivo.

«Madonna che soggetto, ma ti rendi conto?» disse sottovoce Cosimo, senza farsi sentire dagli altri.

Io non riuscivo a rilassarmi e, pur mantenendo un profilo basso, gli mostrai tutta la mia indignazione per quell’insulsa scenetta.

«Perché hai voluto esagerare? Cazzo, nemmeno lo conosci. E se t’avesse menato?»

«Ma chi? Quello? Ma se non si reggeva in piedi…»

«E se avesse tirato fuori un coltello?»

«Chiamavo i carabinieri. No?» fece Cosimo abbozzando un ghigno.

Non ero in vena di scherzi e se ne accorse subito. Prese a guardare per terra distogliendo il più possibile i suoi occhi dai miei.

«Eccolo. Ancora.»

«Eh?»

«Perché fai sempre così?» Era la prima volta che glielo facevo notare. «Quando ti attaccano, o ti feriscono o ti dicono cose che non vuoi sentirti dire, tu guardi in terra. Ma che cazzo guarderai poi? Controlli di avere tutte e due i piedi?»

«Icché c’entra codesto.»

«E cosa cerchi allora?»

«Fiducia.»

«Fiducia?»

«Sì, mi prendo tempo per trovare argomentazioni plausibili. Fino a che non saprò come esprimere determinati concetti, me ne starò zitto. Voglio essere sicuro di non dire stronzate. Tutto qua.»

«E ora hai capito qual è la prossima cosa che dirai?»

«Metà.»

«Metà?»

«Metà risposta.»

«Metà risposta mi va più che bene.»

«Che c’ho bisogno di quei soldi Marghe.»

«Sì va bene, ma lo capisci cosa rischi?»

Cosimo si ammutolì di nuovo. Ma questa volta non guardò in terra. Sostenne lo sguardo. Poi, un ronzio mi fece capire che in realtà non è me che stava guardando ma di nuovo quel drone insopportabile sospeso a mezz’aria proprio sopra la mia testa.

Costretti alla fuga, ci allontanammo un altro po’ e andammo a sederci su una delle panchine del parco. Cosimo rimase in silenzio, io, invece, tirai fuori il libro di Schopenhauer che avevo nello zaino e cominciai a leggerlo senza leggerlo davvero. Piuttosto, pensai ai miei sentimenti per lui, ma non riuscivo a decifrarli del tutto. Lo amavo sul serio? Fin da piccoli, ci insegnano che il cuore sta in alto a sinistra, che è una cosa sola, a tinta unita, pulsante e univoca. Ma è falso, proprio come quei soldi che dovevamo prendere. Il cuore è pieno di corridoi, cunicoli, spugnosità e tornanti. Niente è vero in assoluto, sempre, a qualunque condizione, latitudine o longitudine. Si può discutere su tutto e solo di una cosa si può esser certi: delle contraddizioni. Proprio mentre Cosimo cominciava a dare segni di impazienza, in lontananza avvistammo Carlos.

Arrivò ancora più abbrutito di prima in compagnia di un uomo di mezza età, forse il falsario, un gigante obeso di quasi due metri dalla faccia inespressiva e i capelli radi, così sparuti che avresti potuto pettinarli con un rastrello. Si arrestarono a qualche metro dalla panchina, con una mimica che suggeriva non volessero donne fra i piedi. Si scambiarono un cenno d’intesa con Cosimo che, come se mi avesse letto nel pensiero, prima di raggiungere quei misogini di merda, mi carezzò il viso.

Dopo qualche preambolo, che comunque dalla mia posizione non riuscii a decriptare, se lo presero sottobraccio e se la svignarono in direzione dell’uscita. Per smorzare la tensione, mi accesi l’ultima sigaretta del pacchetto che tenevo in borsa e sprecai due minuti buoni della mia vita ascoltando un delirante messaggio vocale di mia cugina. A quanto pareva, aveva un ritardo ma si vergognava troppo di scendere in farmacia per prendere un test di gravidanza. Mi chiedeva quindi il permesso di comprarlo su Amazon e spedirlo a casa mia. La mandai a cagare con un vocale di due secondi. Dopo poco, vidi Cosimo rientrare nel parco e trotterellare verso di me. Era solo.

«Tutto bene, tutto bene» cantilenò.

Mi si avvicinò e, sfilandomi con la mano la sigaretta dalla bocca, mi schioccò un bacio sulla punta del naso. Poi diede un tiro lungo e sbuffò una lunga scia di fumo nell’aria. Sembrava avesse esalato il primo vero respiro della giornata. Come se fino ad allora fosse rimasto sott’acqua tutto il tempo.

Nessuno aveva più voglia di camminare. La ricchezza rende indolenti, molli, pigri. Mi feci dare una banconota del Monopoli e andai a comprare i biglietti dell’autobus e un pacchetto di sigarette.

Nell’attesa parlammo di Schopenhauer, dell’arte di aver ragione e del rischio di incappare nella reductio ad absurdum, un tipo di argomentazione logica nella quale, muovendo dalla negazione dell’ipotesi che si intende sostenere e facendone seguire una sequenza di passaggi logico-deduttivi, si giunge a una conclusione incoerente e contraddittoria. Sebbene Cosimo, a ragione, sostenesse che fosse una delle principali forme di dimostrazione matematica, io allargai il campo della discussione sostenendo che questa tecnica veniva usata anche in altri ambiti, come la filosofia. Tale metodo logico faceva uso del principio del terzo escluso, tertium non datur, per il quale un enunciato che non può essere falso, dev’essere per forza considerato come vero non essendovi una terza possibilità. Cosimo non colse subito il problema di questo assunto, il fatto cioè che in politica se ne facesse un uso smodato e tutt’altro che etico. Il principio del terzo escluso, infatti, era un mezzuccio atto a nascondere l’inconsistenza delle proprie idee e a screditare quelle degli avversari.

L’autobus arrivò prima che io potessi aggiungere altro a quella teoria che tanto mi appassionava. Mentre Cosimo prendeva posto, obliterai entrambi i biglietti pagati coi soldi falsi e la cosa mi fece sentire strana, alimentando un po’ quel senso di colpa che da qualche parte mi martellava in testa. Lo raggiunsi. Stava di nuovo fissando la punta delle sue scarpe. Per un attimo pensai di non conoscerlo poi così tanto, e che a volte lo guardavo come si guarda una stanza in cui si entra per la prima volta. Mentre lo osservavo, mi chiesi se avessi davvero voglia di perlustrarla tutta quella stanza. La domanda senza risposta, per un attimo, mi parve il nocciolo di tutta la questione.

«A cosa pensi?» gli chiesi a un tratto.

«Nulla, cioè… che ora che ho i soldi, devo solo capire come spenderli.»

In qualche modo, fu chiaro a entrambi, Cosimo aveva trovato un lavoro.



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