Bear

Freddo. Una carezza gelida inflitta dal vento solca curiosa il mio viso. Febbraio è agli sgoccioli, qui a Firenze, ma il gelo straordinario che da giorni attanaglia la città sembra dire il contrario. Lo zero della colonnina del termometro è ormai un ricordo lontano ed io mi sento un po’ come Varlam Salamov nei suoi ‘Racconti della Kolyma’.

È buio pesto, lei non si vede.

È da dieci interminabili minuti che aspetto davanti all’ingresso di un ristorante a due passi da Porta Romana. Locale vintage, come va di moda dire oggidì, non tanto per l’arredamento, quanto per l’uniforme dei camerieri. Guardandoli danzare coi vassoi in mano sembra di essere a una festa Anni 70: pantalone nero a zampa e maglietta verde con clamoroso scollo a V che lascia intravedere, nei ragazzi, flora villosa e ben poco attraente e, nelle ragazze, seni bianchi e prosperosi. Il locale, poi, trabocca come un vaso annaffiato con l'Arno.

Lei, però, è in ritardo. Quel ritardo che puzza di ripicca e come al solito brancolo nel buio. Forse non mi avrà ancora perdonato per non averle fatto gli auguri di compleanno con un messaggio allo scoccare della mezzanotte del fatidico giorno, o magari è furiosa perché non riesce ancora a sopportare l’idea che, prima di conoscerla, avessi già il pisello e, di tanto in tanto, mi capitasse persino di usarlo.
Una ventata spietata ed affilata come un rasoio mi ferisce in volto. Girandomi, trovo riparo a un centimetro dal vetro del ristorante. Mentre sguinzaglio i miei occhi alla ricerca sodi sederi altrui colgo nel riflesso appannato della porta il movimento di una grossa macchina nera, forse un vecchio Mercedes, che si ferma, bruscamente, davanti al locale.

Il ronzio del finestrino elettrico che si abbassa cattura tutta la mia attenzione.

“Sali” – fanno due occhi neri e profondi seduti sul sedile posteriore. Il resto del volto mi è celato dal vetro dell'auto. Mi giro, cercando di capire se l’invito sia rivolto a me. Ci sono solo io. Sono l’ultimo uomo sulla faccia della Terra. Che stia parlando con il suo amico immaginario?

“Ho detto sali”.

Lo dice con un tono che ti fa venire voglia di non contraddirlo. Ansia. In una frazione di secondo la mia mente viene attraversata e sconvolta da un turbinio di pensieri. Quello che si fa strada con maggior forza suggerisce che il tizio possa essere un sicario assoldato da Lei per freddarmi e lavare l’onta dei miei peccati. Ma è chiaramente un'esagerazione. O forse no?

Con un impeto di coraggio decido che la vita va vissuta sino in fondo, costi quel che costi, sbrino le gambe e raccolgo il guanto di sfida. Passando dietro la macchina, do una sbirciata alla targa. Il pezzo di latta dice 'MI'. Mentre mi avvicino alla portiera comincio a pensare che forse il tizio seduto dietro mi conosce davvero. E quando dico ‘conoscere’ lo intendo proprio nel senso più profondo del termine. Magari sa chi sono, che sono nato al nord, sa dove abitano i miei genitori. Sa che lavoro faccio, che bevo solo birra doppio malto e che, dopo anni da tabagista, sono passato alle sigarette elettroniche. Forse è addirittura a conoscenza del mio innocuo segreto. O magari mi hanno soltanto scambiato per qualcuno che l’ha combinata grossa. E ora sono guai seri.

Apro la portiera e m’infilo dietro, mentre una tachicardia lieve e sincera comincia a farmi compagnia. Gli interni della macchina, sulle tonalità del nero, sono di pelle e odorano di vecchio e stantio. I miei occhi indugiano ancora un po’ prima di alzarsi a scrutare il mio futuro. Se questa è la fine, non avrò avuto nemmeno il tempo di dire addio alle persone mie care. Ma soprattutto, non avrò più occasioni di dirle chi credo di non essere.

Io e il tizio incrociamo finalmente lo sguardo. Non l’ho mai visto prima, o almeno credo. Assomiglia moltissimo all’Harvey Milk interpretato da Sean Penn nel film Milk, pellicola sull’attivismo omosessuale nella San Francisco degli anni Settanta. Indossa un completo elegante blu scuro e una camicia bianca, senza cravatta.

“Sai chi sono?” – fa lui misterioso, spezzando il silenzio.

“No” – è la mia impacciata replica.

“Parti” – si rivolge così all’uomo alla guida. Il mio sguardo si sposta per la prima volta in direzione dell’autista. Intravedo solo la nuca e il collo. Un collo taurino che non ispira fiducia. Cerco nello specchietto retrovisore i suoi occhi. Li trovo, dietro una vistosa montatura nera. Non conosco nemmeno lui, sembra più giovane del mio vicino, però, probabilmente sulla quarantina. Anche il suo non è un volto nuovo.

Mentre l’auto si allontana dal marciapiede, con discrezione mi giro dietro a guardare verso il ristorante. Vedo qualcuno in lontananza arrivare da una via secondaria. Mi chiedo se sia lei.

“Sai, – mi fa, interrompendo i miei nostalgici pensieri – non ho mai capito perché la maggior parte delle persone sia così incapace di prendersi il bello della vita e di goderselo come si deve. Ti dirò di più, secondo me la gente non vuole stare bene, e si nasconde dietro esistenze miserabili e noiose. Siamo circondati da persone che vivono in incognito tuffandosi ostinatamente nell’infelicità, solo per paura che la loro vera essenza, magari, li smascheri all’improvviso, impreparati ed inermi. E per questo, si abbandonano alle convenzioni, si sposano, si moltiplicano, non disattendono i sogni dei propri genitori, e poi alla fine muoiono ma, di fatto, lo fanno vivendo a metà. Non trovi?”

Mentre l’auto passa dalle parti di Ponte alla Vittoria, comincio a temere che Mr Milk sia uno squilibrato e che la mia ora sia vicina. Mi faccio coraggio.

“Lei chi è? Cosa vuole da me?”

“Svelati o muori. Qui, stanotte” – fa lui

Il cuore mi si ferma.

Dopo qualche secondo il rosso di un semaforo inchioda l’auto all’asfalto. Gocce di sudore cominciano a imperlarmi la fronte. Sbirciando la sicura della portiera noto, con sollievo, che non è inserita. Mi serve davvero poco per intuire che quella è l’unica occasione per fuggire dal mio destino. Con un unico gesto spalanco la portiera e comincio a correre. Un motorino mi schiva per un pelo, ma non posso fermarmi e continuo a sfrecciare in mezzo alla strada. Dopo pochi metri un rumore assordante di freni mi rimbomba con violenza nelle orecchie. Ho giusto il tempo di voltarmi e vedere la fine, sotto forma di due fari accecanti che si avvicinano, inesorabili, sino a inghiottirmi.

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Mi sveglio di soprassalto. Sono sul divano di casa mia, completamente sudato. Dio che brutta sensazione, e che razza di sogno… Mentre, ancora rintontito provo a ricompormi, ho un sussulto alla vista dell’autista della Mercedes che esce dal ventre di un cammello. È lì, nella mia tv! Realizzo solo ora che prima di collassare stavo guardando un episodio di Bear Grylls, l’ultimo sopravvissuto.

Mi trascino fino in camera e, dopo aver spento tutte le luci, mi butto sul letto. Il culo mi fa un male cane e, prima di chiudere gli occhi, cerco di mettere lo sguardo a fuoco nell’oscurità più totale. Il mio innocuo segreto è ancora qui, lontano da sguardi indiscreti. Accarezzo con le dita l’enorme vibratore in silicone e acrilonilitre-butadiene-stirene che giace disteso sul mio comodino. Domani le parlerò. Parlerò a tutti; o forse no. Forse me ne starò in casa a fingere di riflettere ancora un po', un centimetro alla volta.

Spengo l’interruttore dei miei pensieri e mi metto in un angolo, aspettando che la notte mi dia un passaggio.




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