Decadenza Differenziata

Mi ha sempre affascinato la sensazione che il ghiaccio affogato in un bicchiere ormai vuoto ti lascia quando incontra le labbra. Il freddo, e, soprattutto, le prime gocce d’acqua gelida sciolte dal calore umano che scivolano via, zigzagando fra quei minuscoli iceberg smaltati che costellano la bocca, perlustrando ogni angolo nascosto del mio cavo orale, anche il più microscopico pertugio. Non c’è per me immagine mentale migliore che renda l’idea della forza dell’acqua, alla quale nulla si cela. Tra i Cinque Elementi, l’unico in grado di assumere qualsiasi forma e di raggiungere ogni cosa. Implacabile . Inesorabile. Senza lasciare scampo alcuno.

Scollando per un attimo l’attenzione dal mio tè alla pesca, lancio uno sguardo verso via Gianpaolo Orsini e immagino quale immane catastrofe potrebbe scatenare un’onda alta cinque metri, e cosa potrei fare io in una tale, devastante, circostanza. Ben poco concludo, se non pregare quel dio che esiste solo nelle teste di noi esseri terrorizzati dalla morte e incapaci di vivere degnamente la vita.
Un trillo familiare mi strappa dall’abbraccio dell’onirico tsunami riportandomi alla realtà. Appoggio il bicchiere sul tavolino del bar ed inizio a tastarmi i levi’s. Per recuperare il telefono devo raccogliere tutte le mie residue forze. Da seduti, infatti, col tessuto del jeans che aderisce tipo latex alla pelle, è sostanzialmente impossibile estrarre qualsivoglia oggetto dalle tasche, a meno che non si assumano posture improbabili da fachiro, con una gamba distesa alla Caroline Kostner e la schiena inarcata, appoggiata allo schienale della sedia, come in preda a crisi epilettiche.
Finalmente estraggo il cellulare, felice e sudato stile Sampei quando tira fuori dall’acqua una carpa mutante di 300 Kg.
Il display mi suggerisce che Ricca sta arrivando: stasera, alla Flog, i latrati stonati e malinconici deLe Luci Della Centrale Elettrica abuseranno delle nostre orecchie.
Mi alzo dal tavolino e, andandomene, faccio un cenno di saluto al barista.
“Ciao grande, ci vediamo presto eh?” Risponde lui con un retrogusto ironico, più o meno lo stesso finto calore e trasporto emotivo che ha mio padre sull’uscio di casa quando, dopo un week end milanese me ne torno a Firenze.
Mentre accigliato continuo a rimuginare sulla questione, sento delle urla in lontananza. Mi avvicino incuriosito, non senza provare un senso di colpa per il mio peccato voyeuristico. Una coppia sta litigando, molto rumorosamente. Lui, sulla quarantina abbondante, brizzolato, barba incolta e bel fisico, lei, bellezza ben oltre la media, più o meno trenta primavere, capelli neri e grandi occhi verdi. Sono entrambi davanti alla campana blu della raccolta differenziata, in via di Ripoli, quella vetro/plastica. In mezzo a loro un mastodontico sacco nero, contenente l’equivalente dell’immondizia di Scampia e comuni limitrofi.
M’hai rotto il cazzo! Non ti voglio più sentire. Te e la tu’ mamma fate come dico io, t’ha capito”- urla lui.
Lei: “E no, stavolta no, ora io e te si parla perché così’ non si può andare avan..
Non le lascia finire la frase, afferra uno sgabello di plastica bianca che spunta dall’enorme sacco nero e lo sbatte con una violenza inaudita contro la campana dei rifiuti. Lo sgabello, o quello che ne resta, esplode, letteralmente, in una decina di pezzi che si librano in aria per poi precipitare al suolo. Se non fossero le 18 di un qualsiasi pomeriggio di aprile, direi che i Fuochi di San Giovanni quest’anno sono iniziati con discreto anticipo..
Vaffanculoooo” urla occhi verdi. “te sei di fori! Ti odio..
Sta’ calma” – sibila lui afferrandole con forza il polso.
“Ahi, mi fai male!!!”
Dovrei farmi i fatti miei; tutto sommato non sta succedendo nulla di grave: una coppia come tante nel pieno di un litigio acceso conclusosi con la detonazione di uno sgabello. A chi non è mai successo? Ma sento male al polso, come se il tizio avesse stretto con violenza il mio anziché quello della sua compagna.
Ne ho abbastanza, faccio due passi decisi verso di loro. Per la serie: ‘fiat iustitia, ruat caelum’.
“Hey, lasciala stare o te la vedrai con me!”
E’ la frase che mi rimbomba nella testa. Quella da film che vorrei urlare in faccia a quello stronzo. E se magari reagisce, ci scappa pure una mezza rissa. Sarebbe davvero un guaio. Soprattutto per lui (!), ma ne varrebbe la pena: salverei quella povera ragazza da un destino infame ed io, invece, troverei finalmente eterna gratitudine ed autostima a grappoli...
E invece no. Giro le mie nike e me ne vado. Mentre mi defilo sento dietro di me le urla dei duepiccioncini che continuano a saturare l’aria. Sono inquieto: la mia apatia e la mia indifferenza mi hanno messo di malumore. Sarei potuto intervenire e ho preferito non farlo, crogiolandomi in questa spiccia vigliaccheria. Proprio io che ammorbo i miei amici con invettive sulla mediocrità intellettuale ed emotiva delle persone, vera e propria base della decadenza della nostra società. Da non credere..
In lontananza vedo la macchina di Riccardo. Un denso fumo grigio riempie l’abitacolo nascondendo qualsiasi cosa si celi al suo interno. Potrebbe esserci chiunque lì dentro. Arrivato davanti al finestrino, lato guida, busso con gentilezza. Un ronzio elettrico anticipa di qualche millesimo di secondo l’abbassamento del vetro. Subito vengo investito da una coltre vaporosa e densa.
“Ciao stupido” – fa Riccardo, finalmente visibile in tutto il suo discutibile splendore.
Faccio per aprire la portiera ma un lamento acuto e straziante, proveniente dall’altra parte della strada, cattura la mia attenzione. E’ lei, la morettina. Sta piangendo. Forse l’ha picchiata. Forse no. Forse peggio. Muovo lo sguardo verso via Giampaolo Orsini, alla ricerca speranzosa di un’onda alta cinque metri che arrivi veloce con le sue creste schiumose e spietate e mi spazzi via dalla faccia della Terra.
Niente da fare..
Salgo in macchina e mi tiro dietro la portiera.
“Vai Ricca, vai come sai”


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