Yes we wear

(pubblicato si 'tina 36 il 03/09/2021)

Io credo nel Karma. Credo che a fare del bene se ne possa ricevere altrettanto. Non per magia, o per uno strano sortilegio molecolare, semplicemente perché fare del bene mi ha sempre messo addosso una piacevole euforia, come piccole scariche elettriche che conferiscono a testa e corpo inerzia, energia appunto. Quando sono 'energico' aumento le possibilità di interagire attivamente con quello che mi circonda, e questa precisa condizione stimola il manifestarsi di condizioni a me favorevoli, mi 'gira bene' direbbe uno come mio figlio.

Intanto, è per fare del bene a lui, che sto andando in piscina a piedi con questo maledetto freddo.

Mio figlio vive in Svizzera, a Lugano. Se ne è andato da Milano un paio di anni fa. Ora lavora in un'azienda che si occupa di selezionare, comprare e distribuire prodotti biologici.

In questo momento la mia Golf lo starà accompagnando per i quattro cantoni dato che il motore della sua ha deciso di fondersi meno di una settimana fa. Claudia, la ragazza di Matteo, mio figlio, non ha la patente e quindi proprio ieri i doveri paterni mi hanno portato fin lassù, in Svizzera, per prestare l'auto ai ragazzi in attesa che vincano al gratta e vinci e comprino una nuova vettura.

Cammino sul marciapiede facendo molta attenzione ad evitare il ghiaccio infingardo, pesando ogni passo e allargando, di tanto in tanto, le braccia per avere più equilibrio. A intervalli regolari mi volto indietro sperando che nessuno stia osservando da lontano un sessantenne sovrappeso intento a piroettare come un cretino sull'asfalto. Il freddo è davvero micidiale, non sento più i piedi e se starnutissi probabilmente qualcuno a centinaia di metri di distanza morirebbe trafitto da una stalattite di muco.

Quando finalmente varco la soglia d'ingresso della piscina e le prime folate di caldo iniziano ad accarezzarmi quel moncherino dolorante che prima era un naso, un'estasi di piacere mi pervade.


“Freddino vero?”


La voce garbata e femminea arriva dall'accettazione.


“Ciao Greta. Mamma mia! L'ho fatta a piedi da casa.. “


“Ma non abita qui vicino?”


“Appunto! Aspetterò primavera prima di uscire da questo paradiso tropicale!”


Mentre la sua risata grassa riempie l'atrio, le sfilo accanto sorridente e mi avvio verso lo spogliatoio maschile. Conosco Greta da quando era ragazzina e veniva a casa nostra per prendere ripetizioni di italiano. Mi ricordo anche che non aveva bisogno delle mie ripetizioni e che alle medie aveva il massimo dei voti in tutte le materie. Ricordo che le lezioni private erano solo delle scuse per incontrare più o meno casualmente mio figlio di cui s'era presa una cotta clamorosa. Ma Umberto, più piccolo di lei di un anno, non se la filava di striscio preso com'era dagli scacchi. In quel periodo lo portammo per tornei in giro per mezza Italia e si laureò anche campione nazionale junior per la sua categoria. Io e mia moglie pensammo che avrebbe sfondato ma di lì a poco scoprì la masturbazione e i sogni di gloria tramontarono in fretta. La cosa non mi dispiacque più di tanto. A me il gioco degli scacchi ha sempre annoiato. A differenza di mia moglie, invidiavo i genitori degli altri ragazzi, quelli normali, quelli che giocavano calcio o a basket. Ogni tanto mi infilavo in qualche palestra e rimanevo lì sugli spalti a vedere qualche partita. Che incanto quelle urla belluine che i papà e le mamme lanciavano in continuazione per le giocate riuscite dei propri pargoli. Ancora più belli erano gli insulti coloriti lanciati in direzione dei giovani arbitri. Musica per le orecchie di un padre abituato invece ad assistere in religioso silenzio a noiosissime partite di scacchi dove la cosa più eccitante che poteva succedere era vedere qualche altro genitore smascellarsi dal sonno. Ma, come si dice, 'se son seghe fioriranno' e così fortunatamente è stato.

Raggiungo l'armadietto numero 11 un attimo prima che il mio naso riprenda a funzionare e un sensibile odore di cloro invada le narici. Lancio la borsa sulla panca di legno, quella più vicina all'asciugatore a muro dove più tardi asciugherò tutti e quindici i miei capelli. Mentre prendo posto sulla panca il mio sguardo va dall'altra parte dello spogliatoio maschile: due ragazzi stanno pomiciando. Lui mi da le spalle e non sembra molto infastidito dalla mia presenza. Lei invece mi guarda con gli occhi sgranati senza però staccare la lingua dalla bocca dell'altro. Accavallo le gambe e mi concentro sulla scena scommettendo sul senso del pudore dei due. Dopo pochi secondi la ragazza allontana malamente il giovane e, guardandomi disgustata, si precipita fuori dalla stanza. Il ragazzo se ne rimane lì impalato indeciso sul da farsi, poi, scavalcando faticosamente la sua erezione, esce dallo spogliatoio e sparisce all'orizzonte.

Beata gioventù penso, mentre un po' mi vergogno del mio istante vouajeristico. Mi alzo e incomincio a ravanare nella borsa cercando l'occorrente per le mie imminenti vasche in piscina: ciabatte di gomma, presenti; accappatoio da peso massimo, presente; cuffia, presente; occhialini, presenti; slip..

Nessuna traccia del costume. Svuoto la borsa sulla panca aspettando che lo slippino compaia. Niente.. Guardo anche sotto la panca sperando che non crepi. 

“Porca puttana” 

Il solo pensiero di rivestirmi, tornare fuori in mezzo a quel gelo correndo a casa a recuperare l'indumento dimenticato mi fa rabbrividire. Ci dev'essere una soluzione penso. Mi è subito chiaro che una volta fuori dall'edificio non vi farò più ritorno: mi rintanerò in casa, lo slippino continuerà a giacere nel cassetto e l'unica 'vasca' che vedrò sarà quella del mio bagno, schiumosa e bollente. Ma non posso saltare un'altra lezione, il mio cuore appesantito ne ha assoluto bisogno. Decido quindi di trovare una soluzione. Lascio la borsa e il suo contenuto spalmato sulla panchina e torno nell'atrio in direzione della vetrina con i pochi articoli in vendita. Cuffie colorate con il logo della piscina; occhialini, tappi per le orecchie, e per il naso. Costumi, nada, niet, niente.

“Posso aiutarla signor Riviera?”

“Ehm, si Greta. Volevo una cuffia, la mia l'ho dimenticata a casa” - faccio io celando, chissà perché poi, la mia reale necessità.

Ne agguanto una gialla e mentre mi appresto a pagarla mi immagino di farle due fori e farci passare le mie gambe, una sorta di costume di fortuna. Scarto subito l'idea, pensando all'immane violenza con la quale deflorerei quell'innocente involucro di plastica. Torno nello spogliatoio indeciso sul da farsi. Considero per un attimo l'idea di nuotare in mutande ma la scarto subito quando mi ricordo di averne indosso un paio, enormi, e bianche di quelle che quando si bagnano diventano trasparenti come inchiostro simpatico e non ho nessuna voglia di finire in galera per atti osceni in luogo pubblico. Sto quasi per mollare e per tornarmene a casa quando i miei occhi si posano sul bidone della spazzatura. Mi guardo intorno. Nessuno nei paraggi, quindi mi avvicino al cesto e apro lentamente il coperchio. Tra le cartacce e qualche bottiglia di plastica intravedo del tessuto. Tiro su lentamente la lenza e quello che inizialmente appare è proprio uno slip. Usato, sudicio, schifoso, ma pur sempre un cavolo di costume. Quando però la preda emerge completamente dagli abissi della mondezza mi accorgo che quello che ho davanti è uno slip taglia bimbo, rosso e con una romantica fantasia a orsetti che ne costella tutta la superficie.

Deluso come non mai lo lancio contro uno dei ganci alla parete e me ne torno a sedere.

Ho la testa fra le mani e lo sguardo fisso al gancio e al costume che vi penzola sopra. Osservando meglio la circonferenza dello slip non sembra così ristretta. Forse lo han buttato perché si era allargato troppo e al bimbo non calzava più. Forse posso farcela, posso provarci.

Un minuto dopo, nudo come un verme mi accingo a indossare l'indossabile. Dopo aver infilato i piedi, l'ostacolo delle gambe viene dignitosamente superato e con un muggito di sofferenza completo l'opera tirandolo su lungo vita e basso ventre. Il più sembra fatto, mi dirigo verso lo specchio e guardo: dall'altro lato c'è un vecchio in ciabatte con una cuffia gialla in testa, occhialini sulla fronte, oltraggioso perizoma rosso e una miriade di orsetti che sta annaspando e affogando fra le sue carni.

Lo risistemo meglio che posso e tirando indietro la pancia mi rimiro. Decisamente meglio, se non fosse per quel pezzetto di pene avvizzito che sbuca fuori e mi fa ciao col prepuzio.. Armeggio ancora un po'. Mi giro; il culo sembra ok, ma quegli stramaledetti orsetti complicano comunque la situazione.

Un'ultima sistemata mi fa apparire a un battito di ciglia dalla decenza. Basta questo a ringalluzzirmi, mi avvolgo nell'accappatoio e volo in piscina. Non c'è molta gente e questo mi rincuora. La corsia numero 3 è addirittura libera. Furtivamente zampetto sino all'ingresso della tre e, assicurandomi che nessuno mi stia guardando, sfilo l'accappatoio e lo appoggio alla balaustra lì vicino. Mi guardo in basso per controllare che il papillon rosso in mezzo alle gambe faccia il suo sporco lavoro: tutto ok. Parcheggio le ciabatte e sono già in pedana. Poi succede qualcosa.. Tiro giù gli occhialini e me li appiccico davanti agli occhi giusto un attimo prima di scorgere il lontananza lo sguardo rapito di un'istruttrice bagnina. Alla sua faccia sembra non piacere quello che sta vedendo e il raggio del suo sguardo si concentra proprio nella mia zona inguinale. Rabbrividendo un po' mi guardo nuovamente in basso, lentamente: lo slip è esattamente dove dovrebbe essere, purtroppo non si può dire lo stesso del testicolo destro: l'oggetto sferico, infatti, sta oscillando come un pendolino magico fuori dal costume. Un cieco imbarazzo mi assale e, senza nemmeno imbracare il gioiello di famiglia disertore, spicco un tuffo a mattone, impaziente di sparire al più presto fra le acque della vergogna. L'inabissamento della palla destra precede di poco il mio. Il piccolo tsunami che solleviamo per un pelo non investe l'inorridita bagnina istruttrice, che scappa dall'onda malefica con uno scatto felino e un urletto di disappunto.

Quella che seguirà sarà la nuotata furiosa e migliore da qualche mese a questa parte.


Circa un'ora dopo sono di nuovo fuori, fa meno freddo e scopro con stupore che un'intensa nevicata ha già imbiancato gran parte del piazzale e le strade attorno. Qualcuno è uscito poco prima di me e ha lasciato delle orme freschissime sulla neve. Osservando quelle macchie scure sulla distesa lattea, con la testa vado a mia moglie Clara e alla sua abitudine di lasciarmi camminare fra la neve per primo, cingendomi per i fianchi e ripercorrendo esattamente i miei passi sul manto bianco. Non le ho mai chiesto perché lo facesse. A dire il vero non le ho chiesto un sacco di cose. E solo ora che è morta mi ritrovo a rimpiangere le domande che non le ho fatto, le attenzioni che le ho negato, le lacrime di lei che non ho bevuto. Pensavo mi piacesse la solitudine, ma solamente quando Clara se ne è andata, ho capito che mi sbagliavo.

Forse per esorcizzare questo senso di inadeguatezza cammino anche io nelle orme lasciate sulla neve, le seguo a testa bassa e nel giro di pochi passi mi ritrovo in strada. A un certo punto le orme finiscono e comincia una macchina enorme, una jeep giallo canarino. Dal vetro appannato scorgo una figura femminile. Poi il finestrino si abbassa.


“Signor Rivera, salga su che le do un passaggio” è Greta che ora mi parla dall'abitacolo.


“Ma no, non ti preoccupare, sto qua vicino”


“Non faccia storie e salga”


Faccio il giro dell'auto e salgo a bordo.


“Greta grazie davvero, non dovevi disturbarti”


“Ma quale disturbo è un piacere. Piuttosto, lei crede nel Karma?”


“come hai detto scusa?”








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