non nE Valeva la pena

Insomma, voglio dire, non è poi così male starsene a casa. Si, sono uno di quelli che in calce al curriculum, fra gli hobby e gli interessi personali aggiunge viaggi. Ed è così, è vero, mi piace viaggiare. Ma mi piace anche starmene a casa. Spiegatemi come mai se uno apprezza una cosa non possa piacergli anche l’opposto. Può essere sensato amare, e contemporaneamente anche odiare. L'odio, così come l’amore, è un sentimento prezioso e tremendamente esclusivo. Nel senso che non si può odiare più di una persona alla volta. Non dobbiamo confondere l'odio col disprezzo: il disprezzo lo senti nella bocca e ha mille sapori, mille declinazioni, l'odio, invece, è univoco e colpisce dritto allo stomaco.

Quindi si, sono uno di quelli che due o tre viaggi all’anno se li concede, ma sono anche uno che non disprezza soste letargiche sul divano. Che male c'è?

A questo pensavo mentre me ne stavo in piedi da un’oretta buona in mezzo a cinquantamila persone in attesa che il concerto di Eddie Vedder iniziasse. Firenze e il caldo erano insopportabili e lo scalpiccio di tutte quelle anime in attesa degli strilli di un cinquantenne aveva già alzato una bella quantità di polvere. Un’altra cosa a cui non potevo smettere di pensare era che non ne valeva la pena. Mi rimbombava nella capoccia, non ne vale la pena. Che poi sono anche un agorafobico mancato che già soffre a stare in mezzo a dieci persone, figuriamoci intrappolato fra migliaia di corpi unti e bisunti. Senza parlare delle assurde aspettative di un concerto che vedrà coinvolto un uomo, da solo, senza la sua band nel vano tentativo di addomesticarci tutti.

Nemmeno il tempo di rotolarmi fra quei pensieri di resa che the man sale sul palco, sobrio e minimale, alza il braccio / fa un saluto / che bello è / mi fa sentire che. No scusate ho confuso gli universi paralleli… Sta di fatto che, mi imbraccia la guitarra e parte con una tripletta pearljamiana: Elderly Woman, Whishlist e Immortality. Nella mia testa qualcosa fa clic e tutte le seghe mentali pre-concerto si dissolvono come il buongusto a un concerto di Vasco Rossi. Ora, non ha davvero senso star qui a descrivere minuziosamente un evento che ovunque nell’internette è stato vivisezionato con cura certosina. Questo non è un resoconto, piuttosto una riflessione alquanto scarabocchiata e disordinata dei miei pensieri, radiografati lungo una serata musicale passata in balia di un pifferaio magico, magnificente e inconsapevole. L’elemento che separa questa performance dagli altri concerti a cui ho partecipato (parecchi) è che, nel bene o nel male, le altre esibizioni sono sempre state tangenti alla mia esistenza e, per quello che ne sapevo, a me era sempre andata bene così. Un ignaro Eddie, invece, visibilmente intimorito dalla vastità del suo entourage fiorentino, non si è limitato a ‘tangere’ la mia giornata ma gli ha cambiato direzione proprio, colpendola con violenza inaudita, il tutto pennellando il più grande contrasto che io ricordi: quello tra la dolcezza della musica e una moltitudine oceanica assetata di sangue e rock’n’roll.

Da più parti, nel drammatico tentativo di recensire il concerto, la parola magia si è spesa con grande disinvoltura. E non è un azzardo, davvero no, ma tutti a dire solo quanto è stato ‘figo, ‘bello’, ‘disarmante’, ‘eccezionale veramente’, ‘schiumoso’, ecc… ma nessuno, dico nessuno, nemmeno gente cresciuta in drappi di flanella tartan e anfibi di siberiana memoria ai piedi, che abbia descritto la rara violenza con cui questo concerto si è abbattuto sugli ignari del Visarno. E allora diciamocela, che la magia a volte può anche essere nera come l’oscurità in una notte senza luna! Ahi che dolor! Io vi dico, infatti, che mentre l’irripetibilità del concerto mi si schiudeva davanti agli occhi, a stento riuscivo a controllare una lucida e corrosiva ansia che mi strisciava nelle viscere. Era il tipico nervosismo di chi sta assistendo a qualcosa di unico e comprende perfettamente che, per quanto ci si possa struggere, niente ci riporterà indietro a quell’esatto istante. Sul maxischermo, anche gli occhi pixellati di Vedder tradivano agitazione, irrequietezza, come lo sguardo di un trapezista che sta camminando su un filo a decine di metri d’altezza, intento a traghettare la sua coscienza e il suo corpo da una sponda all’altra. Un tragitto che, a prescindere dal finale, sei sicuro che ti cambierà i connotati. Così, mentre la sua voce scorreva impetuosa in quel mare di note, l’ippodromo intero venivo trascinato via, liquido e inerme. Lo sentivamo tutti, lo sentiva l’uomo sul palco, lo sentiva la terra sotto le nostre scarpe di tela consunte e sporche di sabbia. Lo zenit collettivo viene raggiunto durante l’esecuzione (non nel senso militare del termine ma anche sì!) di Black dedicata fra le righe alla buonanima di Chris Cornell. E quando, sul finire della canzone, Eddie Vedder con un filo di voce rotta dall’emozione canta ‘come back, come back...’ gli argini crollano, il Visarno esonda e come back è come se lo stessimo urlando tutti alla vita che ci siamo lasciati dietro di noi e che - hai voglia a strillare - non ritornerà mai più. Ecco, qui è il momento in cui realizzi che ami questo pezzo ma, porcoddio, lo stai anche odiando profondamente per come ti fa sentire di merda. È un concerto spietato nel senso che non prende prigionieri: ti colpisce a fondo, là dove fa più male, dove sei più vulnerabile. Senza pietà. Il concerto va avanti così fra una insostenibilità emotiva ed un'epicità che a stento riesco a gestire, con tanto di stella cadente a suggellare le ultime note di Imagine di John Lennon.

Non ho molto da dire sull’epilogo dell'evento e della lunga processione fino a casa. Ne ho davvero un vaghissimo ricordo. Anche la scaletta completa dell'esibizione, ad alcuni giorni di distanza, sta iniziando a sbiadire. Già non rammento molte delle cose dette da Vedder durante gli intermezzi fra una canzone e l'altra. Proprio ieri discutevo con la mia compagna se un pezzo fosse stato eseguito o meno quella sera. Dai, si sa, la memoria gioca brutti scherzi. Ma sulla ‘pancia’ puoi sempre contare, lei non mente mai. Per la medicina è una sorta di secondo cervello che misura l’intensità delle parole, delle azioni e dei gesti, e che conserva meglio l'impatto che un ricordo ha su di noi. Non è quindi casuale che ancora ricordi la sensazione nel mio stomaco quando, da bambino, a Salerno, vidi per la prima volta il cadavere di un uomo morto ammazzato, mentre mia nonna tentava di coprirmi gli occhi con la mano. Così come mai dimenticherò il groviglio di emozioni e lo sguardo in tribuna di mio padre dopo il canestro della vittoria durante una trasferta a Crema. Non c’è tragedia o gioia vera nella vita che, chiudendo gli occhi, non si riesca a rievocare nelle viscere. Allo stesso modo, la mia pancia difficilmente si dimenticherà dello sconquassante concerto di Eddie Vedder al Visarno, in una notte d’estate.

Commenti

  1. Tutto vero! Sottoscrivo in pieno ogni riga, e nel frattempo la mia pancia mi da ragione! Bravo.

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