L'amore ai tempi del cioccolato

(pubblicato su birò col titolo "Mittente: anonimo Destinatario: sconosciuto" il 04/02/2021)

Ho sempre pensato che non mi piacesse correre.

A parte qualche sport di squadra, praticato in maniera disordinata e poco disciplinata in gioventù, non avrei mai pensato che un giorno questo appuntamento fisso con la corsa mi avrebbe contraddistinto: per molti, infatti, sono Marco, quello che corre forse ancor prima di Marco aspirante editorialista. Ho iniziato a correre più o meno otto anni, dopo un infortunio alla caviglia durante una partita di basket e adesso non posso smettere: corro tutti i giorni, corro in vacanza, al mare o in montagna non fa differenza, corro quando sono in trasferta per lavoro. Anche i sogni li faccio di corsa. Non corro solo per il piacere di farlo, soprattutto per tutte quelle endorfine liberate che la corsa riesce a regalare al mio corpo. Negli anni, il rapporto tra il mio lavoro e la passione per la corsa hanno raggiunto un equilibrio saldo e simbiotico, come mai avrei potuto immaginare. Haruki Murakami, nel libro L’arte di correre, sottolinea che, per quanto possano sembrare entità distanti e distinte, in realtà la preparazione e la dedizione necessarie per scrivere sono le stesse richieste per correre: da una parte, un’attività fisica protratta, lunghi allenamenti, tempi, sfide, competizione con sé stessi, sofferenza; dall’altra, la ricerca di visioni e letture profonde, condite da ricerche, stile, microscopica osservazione del reale e cura del particolare.
Mentre penso alle parole di Murakami, cercando di tenere sotto controllo un buon ritmo di corsa, gli auricolari infilati nelle orecchie, mi notificano una chiamata in entrata. Guardo il display dello smartwatch, convinto di leggere il nome di mia moglie. È Alberto, invece, uno dei miei migliori amici. Rallento la corsa, indeciso se rispondere o no.
“Pronto?!”
“Marco, tutto ok? Brutto momento?”
“No, no, sto correndo.”
“Già…, immaginavo.”
“Dimmi!”
“Ti rubo un secondo: volevo sapere se vieni a vedere la partita da me stasera.”
“Mmmm…”
“Porta anche Sofia, così lei e Marcella si fan compagnia mentre io e te bestemmiamo in tranquillità, tifando la nostra ignobile squadra.”
Stavo per rispondergli di no, che lo ringraziavo ma che preferivo stare a casa con Sofia, che ero stato a Catania quasi tutto il week-end per scrivere un reportage sul movimento Friday for future, ma che ora era il futuro del mio matrimonio ad essere in bilico. Decisi comunque che non era il caso di essere così specifici. Ma non ebbi il tempo di dire nessuna di queste cose. Mentre attraversavo la strada sulle strisce pedonali, fui investito da una Renault rossa che non fece in tempo a frenare. Per mia fortuna l’impatto non fu molto forte, ma venni comunque preso sul fianco sinistro e, dopo aver sbattuto sul parabrezza della macchina, finii in terra rotolando per alcuni metri.

“Marco?! Ci sei?”

Mentre, semi- immobile sul freddo asfalto, controllavo di essere ancora intero, fui circondato da persone e curiosi. Vedevo tutto sfocato e la testa mi girava da impazzire, come quando da piccoli si passava troppo tempo seduti su una di quelle infernali giostre girevoli che popolavano i parchi per bambini. Ancora sotto shock, lottai con quel senso di vertigine e con uno strano e martellante brusio che sentivo vibrare nelle orecchie. Vidi farsi largo fra la folla una vecchietta, che piangendo mi venne incontro, scusandosi e abbracciandomi incredula. Si trattava della conducente della Renault rossa che, fra i due, era di gran lunga la più contenta circa la mia sopravvivenza.
“Maaaaarcoooooo? Ma cos’è sto casino? Tutto ok?”
Realizzai solo in quel momento di avere ancora gli auricolari infilati nelle orecchie e che dall’altra parte di Firenze c’era una persona che stava provando a parlare al telefono con me.”
“Albe, aspetta, aspetta.”
L’anziana signora e un ragazzo con una confezione di nutella biscuits sottobraccio mi aiutarono a rimettermi in piedi. Provai a rassicurare tutti sul mio stato di salute e li ringraziai per aver prestato soccorso così prontamente.
“Grazie di che? Marco?”
“Albe, scusa, ti posso richiamare?”
“Ma che succede?”
“No, niente… ! Mi hanno solo investito. Un attimo”
“Che? Cosa?”
“Ti richiamo fra poco.”
A parte qualche livido e sbucciatura, ero miracolosamente intatto. L’impatto era avvenuto ad una velocità contenuta, ma cadere male battendo la testa e riportare danni seri è altamente probabile in dinamiche di questo tipo. Grazie all’adrenalina in circolo, fui addirittura in grado di andarmene dal luogo dell’incidente abbozzando una dignitosa corsetta. Avrei potuto fingere e simulare un infortunio ben più serio. Forse, con il supporto di un paio di amici dottori, sarei anche riuscito a sabotare referti medici e spillare un bel mucchio di quattrini alla compagnia assicurativa della signora. La verità è che non sarei stato mai quel tipo di persona, piuttosto uno con pochi soldi in tasca e la coscienza a posto. Quando fui lontano qualche centinaio di metri, iniziai a sentire i primi dolori affiorare, soprattutto al ginocchio e al gomito destro, le parti del mio corpo più sollecitate esposte dalla caduta. E se per il gomito potevo anche fregarmene, il ginocchio non mi permetteva di procedere come avrei voluto. Ma casa era davvero dietro l’angolo, per fortuna. Dopo un paio di curve, l’articolazione mi faceva un gran male e correre mi era diventato impossibile. Camminai ancora per pochi metri poi, esausto, mi trascinai verso i tre gradini che portavano dritti all’ingresso dell’abitazione e mi misi a sedere.
Rimasi lì immobile per diversi minuti, ansimante e madido di sudore, ero ancora sconvolto per via dell’incidente. Proprio quando stavo per rimettermi in piedi, un Liberty Piaggio griffato Poste Italiane decelerò e si fermò a pochi passi da me. Il postino, senza scendere dallo scooter e senza spegnere il motore, rovistò nel suo borsone a tracolla per qualche secondo. Poi sfilò una busta bianca e, dopo aver letto attentamente l’indirizzo, me la porse guardandomi con un misto di compassione e diffidenza.
“Gr-grazie!”
Non avevo particolare fretta, erano le undici del mattino di domenica e Sofia era fuori al mercato. La temperatura era gradevole, decisi così di aprire la busta con mittente anonimo. La lettera era scritta a mano. Pensai che fosse una rarità, di questi tempi. D’istinto, o forse per distrarmi da quanto era appena successo, iniziai a leggerla.

Caro figlio

non sono bravo a scrivere come te. Non sono buono nemmeno a parlare. A pensarci bene, farei prima a riempire questa paginetta con tutte le cose che non sono capace di fare. Ma mi concentrerò solo su una: non sono più arrabbiato. Da quando mamma, anni fa, ci ha abbandonati scappando in Costarica con il suo istruttore di nuoto, la mia vita ha iniziato a disgregarsi e a prendere una china che mai avrei voluto prendesse. Quella dell’ira funesta e delle dipendenze, prima dall’alcool, poi dal gioco d’azzardo. Dipendenze che hanno dilapidato tutti i nostri soldi e che ti hanno costretto a crescere in fretta e a levarti di torno non appena possibile. Quando, a vent’anni, hai ottenuto la borsa di studio per l’università e te ne sei andato a Venezia, invece che esserne felice e gioirne assieme, ho giurato a me stesso che non ti avrei più voluto vedere. La sera che mi salutasti, desiderai che tu cadessi dalle scale e che ti rompessi una gamba. Ma non accadde e io, seduto sul tuo letto, rimasi a fissarmi la punta delle scarpe per un tempo indefinito. Lessi quella tua scelta come l’ennesimo abbandono della mia esistenza. Ma nella realtà eri soltanto ansioso di provare a vivere la tua vita senza che la realtà circostante ti tarpasse le ali. Soltanto ora lo capisco, lo comprendo appieno.

In questi lunghi dieci anni, molte cose sono successe: ho smesso di bere, ma solo per rimanere lucido e trovare nella fuga, una soluzione ai debiti che avevo accumulato con le scommesse. Non è buffo? Proprio io, che vi ho detestato tanto per essere fuggiti andati via, completo il quadretto scappando da me stesso. Strana è la sorte. Ora mi trovo da qualche parte in Sassonia, non ti dirò dove. Sappi soltanto che mi sono rimesso in carreggiata: lavoro come muratore presso un’impresa edile, ho di nuovo un tetto sopra la testa e, giorno dopo giorno, sto ritrovando sempre più frammenti di quella dignità che era andata in mille pezzi. Mi sono quasi ripulito poi! Non tocco un goccio d’alcool da quella sera che ho deciso di lasciare Firenze. Anche il gioco d’azzardo è ormai un ricordo lontano.

Ma come si dice: “cos’è l’uomo senza vizi?” Ed io, seguendo il copione, ho dovuto rimpiazzare le mie precedenti debolezze con qualcos’altro. Questo “altro” è appunto il cioccolato che, al momento, riempie tutti i miei vuoti: extra-fondente, al latte, bianco, [Autore sc1] [e2] al gianduia, al caramello, ho perso il conto... Pensa che l’altro giorno al supermercato ho comprato solo cioccolato, persino lo shampoo era al cacao. Ovviamente, come ogni dipendenza, sta portando a delle trasformazioni nel mio corpo non indifferenti: ho una gastrite cronica, che mi fa vedere i sorci verdi e che mi lascia dormire non più di due o tre ore per notte. La pelle è piena di eruzioni cutanee e, nonostante la mia non più tenera età, mi sembra di essere in una nuova e dolorosa fase puberale. Ma non mi fascio la testa e comunque: meglio morire per colpa del cioccolato che col fegato spappolato dall’alcool o con la gola tagliata da qualche strozzino. Mi sono anche documentato, sai? La più antica divinità dedicata al cioccolato è “El Chuah”, il dio dei mercanti e del cacao, venerato dai Maya attorno al 400 a.C. Gli Aztechi, invece, usavano i semi di cacao come moneta di scambio: con uno compravi un pomodoro, con tre un avocado, con dieci addirittura un coniglio. Non sarebbe tutto più bello, se sostituissimo gli euro col cioccolato? Tu che hai studiato, fatti venire in mente qualcosa!

Ora come ora, forse anche per merito del cioccolato, il morale è buono e non ho troppi brutti pensieri. Soltanto al tramonto, quando di solito sono già a casa da un pezzo, mi sale un filo di malinconia ripensando a quello che non è andato nella mia vita e che magari poteva andare diversamente. Penso a te, al male che ti ho fatto in questi anni di latitanza, semplicemente non facendo niente.

Ti voglio bene, figliolo, e anche se le mie azioni direbbero il contrario, è impossibile mentire al cuore e all’anima. Leggo sempre di te su internet e sono fiero di quello che stai diventando. Mi rammarico di non aver ancora conosciuto tua moglie e i bimbi. Chissà se i piccoli assomigliano un po’ a tua madre… spero che siate felici insieme. Forse un giorno sarò pronto davvero a conoscerli, a riconoscervi, e a riabbracciarvi tutti. Tu intanto raccontagli che il nonno è in giro, che sta cercando di fare pace col mondo e che lo invidierebbero se sapessero quanto cioccolato riesce a mangiare.

Con amore

tuo babbo Anselmo

Ripiegai quei fogli di carta e li infilai come meglio mi riuscì nella busta. Ci misi un tempo interminabile ad alzarmi, con il mio ginocchio che non ne voleva sapere di collaborare. Mi trascinai fino alla cassetta della posta e spinsi dentro la lettera. Nonostante avessi commesso il reato, seppur piccolo, di leggere la posta altrui, non provai alcun pentimento o rimorso.

non provai alcun pentimento o rimorso.

Claudicante e infreddolito dalla pungente aria marzolina, ci misi dieci minuti buoni per arrivare finalmente a casa. Mi soffermai davanti alla buca delle lettere ma, a parte un volantino del Lidl, non c’era nessuna missiva ad aspettarmi. Mio padre era morto tre anni prima e mia mamma lo aveva seguito soltanto sei settimane dopo. Non ho mai capito se il loro fosse stato un matrimonio felice, però ancora oggi gli invidio la capacità di essere stati così legati l’uno all’altra. Non avrei mai saputo immaginarli soli, senza loro stessi, e in questo empatizzavo bene con la storia dell’altro padre. In qualche modo capivo lo straniamento di Anselmo, il suo senso di abbandono e la sua incapacità di farsi forza e bastarsi da solo.

Entrai in casa e tribolai non poco per spogliarmi e per farmi una doccia bollente. Il ginocchio si era gonfiato e mi ripromisi di andare dal dottore, per farmi dare un’occhiata il prima possibile. Era già ora di pranzo e Sofia era ancora fuori, così, dopo essermi rivestito a fatica, filai in cucina e, rovistando nella giara dei dolciumi, agguantai un paio di wafer al cacao. Mi spostai in salotto e mi sdraiai sul divano a guardare alla tv la replica di una partita di basket, ma ben presto persi interesse. Feci un po’ di zapping prima di soffermarmi su un canale satellitare dove stavano trasmettendo Forrest Gump. Bastarono una manciata di minuti e mi addormentai.

Mi svegliai un po’ di tempo dopo, complice l’ennesima telefonata di Alberto, a cui effettivamente dovevo ancora un po’ di spiegazioni. Mi portai il telefono all’orecchio, proprio mentre alla tv la madre morente di Forrest pronunciava:

La vita è come una scatola di cioccolatini, Forrest… Non sai mai quello che ti capita.







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