il silenzio e altre forme di rumore

(pubblicato su Voce del Verbo il 27/05/2020)

Era da tanto che non prendeva la bici della moglie. Come immaginava, la trovò con entrambe le ruote sgonfie e con il sellino regolato troppo in basso per la sua altezza. Tolse qualche ragnatela dal telaio, poi fece scorrere i polpastrelli sul sellino, un cuscinetto nero in plastica ergonomica con due molle che assorbivano gli urti, nascoste nella parte inferiore. Col palmo della mano, levò un po’ di polvere anche da lì. L’ultima volta che la bici era uscita dal box, neanche a dirlo, era stata la moglie ad utilizzarla. L’uomo pensò a tutte le volte che lei aveva provato a convincerlo a comprarne un’altra per uscire assieme, ma la sua pigrizia non faceva prigionieri e ogni scusa era buona per infilarsi in macchina ed ignorare qualsiasi altro mezzo di trasporto. Sua moglie, invece, nonostante avesse la patente, detestava guidare e preferiva sempre muoversi in bicicletta. Quel giorno, invece, le scelte dell’uomo erano ridotte al lumicino: poteva decidere di restare a casa oppure di uscire per un giretto rapido, a suo rischio e pericolo.
Passò la successiva mezz’ora a prendersi cura della city bike: pulì con un panno umido ogni centimetro del telaio blu metallizzato, controllò lo stato dei freni, gonfiò a dovere le ruote e testò scrupolosamente il cambio shimano a sei velocità. Quando ebbe finito, constatò soddisfatto che, nonostante l’inattività, la bici non aveva perso nemmeno una stilla della sua funzionalità. La portò fuori all’aria aperta tenendola per mano, come faceva con sua nipote ogni volta che andava a prenderla a scuola. Era una bella giornata, fredda ma con un cielo terso e un sole pieno e pulsante a illuminare le strade e i palazzi. L’uomo si soffermò sulla leva a sgancio rapido alla base del tubo sotto al sellino, indeciso sul da farsi: per qualche strano motivo era titubante sul fatto di regolarne l’altezza. Giocherellò per un attimo con la leva, allentandone un poco la stretta. Poi decise di lasciare tutto com’era, salì sulla bici e si godette per un attimo la visuale di cui aveva beneficiato la moglie. Pensò che, in fondo, non era poi così male.

Le prime pedalate, incespicanti e disarmoniche, lo fecero dubitare di saper ancora portare una bici. Dopo un paio di zig-zag e furiose sterzate di manubrio, ritrovò un equilibrio decente e prese una traiettoria docile e quasi diritta.
Il paese era pressoché deserto, nessun pedone né macchine, solo il cinguettio di qualche uccello sopra la sua testa. Poco più in alto dei volatili, i suoi pensieri, che ancora incespicavano tentando di prendere spunto da quella pedalata laggiù, ormai diritta e abbastanza armoniosa.
Girò l’angolo e rallentò un poco, fino a fermarsi davanti al bar dove il pomeriggio andava a giocare a carte con gli amici e a fare aperitivo, bevendo prosecco e masticando qualche arachide rancida e unta di periferia. Il bar era chiuso, con la serranda abbassata e un foglio di carta appiccicato a metà altezza, con una scritta a pennarello storta e infantile a notificare la sospensione dell’attività.
Non si stupì più di tanto, d’altra parte quelli erano tempi difficili. Non per lui, però. L’uomo, infatti, alla sua età aveva già combattuto le sue battaglie. E, proprio come quelle che giocava a briscola, qualcuna l’aveva vinta, qualche altra persa. Ripensando alle sue sfide da bar, gli tornò alla mente che Alfredo doveva ancora pagargli un paio di caffè, vinti a briscola fra una boccata di sigaro e una bestemmia tonante. Lui non era un giocatore di carte improvvisato. Prima di cimentarsi coi colleghi fannulloni o pensionati, da spettatore non pagante, li aveva a lungo studiati, spiati, ricostruendo ogni loro singola mossa. Poi era sceso in campo, con cognizione di causa e un arsenale di tecniche niente male. Avrebbe voluto avere la stessa occasione con la vita e giocare con lei ad armi pari: poterla studiare, rallentare e vivisezionare, e, soltanto quando si fosse sentito pronto, scendere in campo per viverla, finalmente.
Scacciò quei pensieri, e riprese a pedalare senza sapere bene dove. Attorno a lui, tutto un susseguirsi di serrande abbassate, porte chiuse e un silenzio surreale a fare da cornice a quel paesaggio post apocalittico. Poi, pochi metri più avanti, una lepre grigia sbucò all’improvviso da chissà dove e gli tagliò la strada fermandosi a pochi metri da lui. L’animale, intento a rosicchiare qualcosa che assomigliava a un tappo di sughero, non gli prestò molta attenzione. Fu un bambino, che arrivò correndole dietro, a farla scappare a zampe levate. La lepre si fiondò in direzione di un cancellino che proteggeva la corte esterna del negozio di bici di paese. Poi, passando fra le inferriate, si andò a nascondere da qualche parte. Il bambino, a occhio e croce sotto i dieci anni, magro come un chiodo e vestito con una tuta da ginnastica fluorescente e scarpe di tela bianche, frenò a stento la sua corsa e per poco non andò a sbattere contro il cancellino in ferro del negozio. Si disperò non poco per quell’ostacolo imprevisto, imprecando con espressioni colorite e molto poco adatte ad un ragazzino di quell’età. Con gli occhi ancora umidi e le guance rigate dalle lacrime, il bimbo tentò la strada del campanello dell’officina, provando a premere convulsamente con le dita sull’interruttore come se quel tamburellare disperato potesse fare la differenza.

Turbato da quell’insolita reazione, l’uomo scese dalla bici, mise il cavalletto e si avvicinò al bambino. Senza proferire parola lo raggiunse e qui si fermò a leggere un cartello affisso all’ingresso: anche stavolta, una scritta comunicava l’interruzione del servizio a tempo indeterminato. Facendo finta di niente l’uomo si mise a guardare oltre l’entrata: scrutò in lungo e in largo, fra carcasse di bici e ferri vecchi e arrugginiti, in cerca della lepre, ma non riuscì a scorgerla da nessuna parte. Poi finalmente parlò.
«Eppure, è entrata proprio qui dentro, passando dalle inferriate. Sono abbastanza larghe, vedi?», fece rivolgendosi per la prima volta al suo vicino.
Il ragazzino, come se si fosse accorto solo in quell’istante dell’uomo, si girò verso di lui e, riparandosi la faccia dal sole col dorso della mano, scrutò meglio l’anziano.
«Chi è entrato? Di cosa parli, signore?».
«Della lepre. Non è lei che stavi inseguendo?».
«No, io non inseguo nessuna lepre».
«Ah, e allora cosa stai facendo? Perché piangi?».
Il bimbo fece spallucce e, sgranando gli occhi, rivolse uno sguardo di concupiscenza in direzione della city bike. Poi continuò con le domande.
«Tu cosa ci fa qui invece? Vai a caccia di conigli?».
«No, niente caccia. E comunque era una lepre, non un coniglio».
«E che differenza c’è? Non sono uguali?»
«Beh, non direi. Le lepri hanno zampe e orecchie molto più grandi e poi sono poco socievoli».
«Che vuol dire “socievoli”?».
«Che non gli piace la compagnia, infatti non appena ti ha visto è scappata via».
«Uh, solo questo?».
«Ci sarebbero altre cose che differenziano le lepri dai conigli».
«Tipo?».
«Mah, ora non saprei. Tipo che i conigli scavano buche sottoterra mentre le lepri no. Ma non sono mica Piero Angela, eh».
«Chi è Pierangela?».
«Lascia perdere… Piuttosto, se non è il leprotto che stavi cercando perché sei così disperato?».
«Niente, volevo cambiare la ruota alla mia bici, ne ho una sgonfia col cerchione tutto storto. L’ho lasciata vicino alla Chiesa, ma è tutto inutile…».
«Sembra un bel guaio. Ma dove volevi andare con la tua bici?».
«All’ospedale del paese qui accanto».
«E come mai proprio lì?».
«Mia nonna è ricoverata e sta male, ma la mamma dice che non ci possiamo andare perché non è un buon momento».
«Beh, forse dovresti ascoltare la mamma e tornare a casa».
«Ma è colpa mia se sta male: ho avuto la febbre qualche giorno fa, e quando mi è passata si è ammalata lei».
«Mi dispiace».
«Ieri notte ho sentito papà e mamma che discutevano di nascosto. Nonna è grave. Dicono che potrebbe morire. Io devo abbracciarla e chiederle scusa».
«Come si chiama tua nonna?».
Il bimbo gli disse nome e cognome, e lui fece finta di non sapere chi fosse.
L’uomo si appoggiò al cancello del negozio con entrambe le braccia come se il peso del suo corpo si fosse fatto per un attimo insostenibile. Quando si riprese vide con la coda dell’occhio il bambino prendere la via del ritorno.
«Aspetta».
«Che c’è?».
Si accordarono così: avrebbe prestato al bambino la city bike della moglie e, facendo grande attenzione, sarebbe andato in ospedale a trovare la nonna. Poi, senza dire nulla ai genitori, gli avrebbe riportato la bicicletta a casa. Gli disse l’indirizzo del condominio tre volte e, prima di mandarlo via in sella alla bici, se lo fece ripetere.
«Ok, ora vai. Torna prima che sia buio!».
Il bambino ringraziò l’anziano signore e, poche furiose pedalate dopo, scomparve all’orizzonte, proprio un attimo prima che il silenzio tornasse a farla da padrone.

Rimase in giro un’ora circa. Non incontrò più anima viva, ad eccezione di qualche furgone impiegato nelle consegne a domicilio. Tornò verso casa passando dal cimitero. Avrebbe tanto voluto sostare un poco sulla tomba della moglie e scambiare due parole con lei. Raccontarle del bambino, della nonna e di quanto fosse assurda quella coincidenza. Ma anche lì, purtroppo, il solito cartello.
Rincasò che erano da poco passate le quattro del pomeriggio. Il letto era ancora sfatto e il suo pigiama una palla azzurra sul parquet di legno. Lasciò tutto così, cristallizzato e immutabile, e andò a farsi una doccia. Finì di lavarsi e vestirsi e si mise a letto a guardare un film alla televisione. Alzò il volume al massimo, sperando di rompere tutto quel silenzio che lo aveva indolenzito.
Giunto ai titoli di coda si accorse che il sole stava iniziando a tramontare. Pensò al bambino e alla sua promessa di tornare con la bici all’imbrunire. Si alzò e andò alla finestra del soggiorno che dava proprio sull’ingresso del suo condominio. Rimase lì di guardia per molto tempo, ma del bimbo nessuna traccia. Sentì un peso sul petto, lo stesso provato anni prima quando suo figlio, allora un bambino, sparì per tutto il giorno nascosto su un albero da cui non voleva più scendere. Solo a notte fonda, e con l’aiuto della moglie, lo trovarono e lo convinsero a scendere, scongiurando una fuga finale simile a quella di Cosimo Piovasco di Rondò.

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Mentre si immaginava le mongolfiere svolazzanti di Calvino, ecco, finalmente, il rumore della bicicletta.
«Ciao!», fece agitando il braccio dalla finestra
Il bambino girò la testa spaesato alla ricerca di quella voce. Poi i suoi occhi incrociarono quelli dell’uomo e, suonando il campanello posto sul manubrio della bici, ricambiò il saluto.
Pochi minuti dopo erano di nuovo insieme.
«Come sta nonna?».
«Nonna dorme. Un dottore gentile me l’ha fatta vedere in foto sul suo telefono. Non sono nemmeno riuscito a entrare, dicono che è troppo pericoloso».
«Cosa ti hanno detto, si riprenderà?».
«Mi hanno detto che rispetto a ieri sta meglio e poi che non devo sentirmi in colpa».
«No, non devi».
«Ho chiesto al dottore che appena nonna si sveglia deve abbracciarla da parte mia e dirle che gli voglio bene».
«Bravo, nonna sarà felice».
«Hai trovato poi il coniglio?».
«Intendi la lepre?».
«Sì! La lepre, scusa».
«No, non l’ho più vista».

La coppia si salutò senza alcuna effusione, in linea con le tendenze del periodo e, dopo una cena frugale, chiamò suo figlio per la solita telefonata di ricognizione, come piaceva dire a lui. Stavano tutti bene ed era tutto quello che avevano da dirsi, tutto ciò che importava. Quando fu davanti allo specchio del bagno per lavarsi i denti, l’uomo ebbe lo stesso sussulto provato quel pomeriggio, dopo che il bambino gli aveva detto il nome della nonna. Lui lo ricordava bene quel nome, era finito anche sui giornali, tanti anni fa. Quella donna, all’ottavo mese di gravidanza, era finita in ospedale d’urgenza con l’utero rotto in più parti e una seria emorragia interna. La figlia nacque clinicamente morta ma, grazie alla moglie e alla sua equipe, dopo dieci minuti di rianimazione si era ripresa e qualche giorno dopo lasciò addirittura l’ospedale coi genitori. La madre, come segno di gratitudine, diede alla figlia lo stesso nome della dottoressa che le aveva salvato la vita. In seguito, nei primi anni di vita della bambina, sua moglie si tenne in contatto con la donna e la sua famiglia, mentre lui non li aveva mai incontrati. L’incontro fortuito del pomeriggio aveva chiuso quel cerchio e l’uomo si chiese se fosse solo un caso.
Poi gli venne una gran voglia di tornare in bici. Così, assecondando quell’impulso, scese di nuovo in garage e, dopo aver testato positivamente i fari della bicicletta, fu di nuovo in strada.
Gli bastarono pochi minuti all’aria aperta, immerso in quella semioscurità, per comprendere che l’intuizione avuta poco prima stava dando i suoi frutti: a ogni pedalata, infatti, si sentiva più leggero e il senso di inadeguatezza che gli si era appiccicato addosso in quelle giornate si stava finalmente scollando, lasciando il posto a una crescente tranquillità. Aveva sempre contemplato il vuoto dell’assenza lasciato dalla moglie come un silenzio assordante che non ne vuol sapere di scorrere. Che si accumulava e basta, giorno dopo giorno. Le pedalate di quella notte, invece, diluirono un poco quel peso, dando un senso compiuto al presente. E anche se in cuor suo sapeva che, una volta tornato a casa, sarebbe rimasto di nuovo solo con quel vuoto, quel carico indicibile che è il silenzio e la distanza infinita dall’amore della sua vita, non si arrese e continuò a pedalare un altro po’, sfrecciando tra quei vicoli deserti e tortuosi, fino a che le gambe glielo avessero permesso, stando attento a non investire qualche povera creatura. Magari un malcapitato coniglio.
Magari una lepre.





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