Maelström pie

(pubblicato su The Bookish Explorer il 13/02/2021)


Chiamatemi Ismaele. Alcune ore fa – non importa quante esattamente – avendo poca o punta voglia di uscire di casa e nulla di trascendentale da fare, ho pensato bene di darmi alla cucina ed esplorare questa parte sconosciuta di mondo. La mia compagna stava tornando da una trasferta all’estero per lavoro e sarebbe rincasata soltanto alle prime luci dell’alba.


Per gran parte del giorno avevo bighellonato leggendo Moby Dick e scimmiottando in giro per casa i personaggi di Herman Melville e pensando molto poco a come sorprenderla al suo ritorno. Poi mi ci misi, arrovellandomi il cervello per gran parte del pomeriggio, e, ricordandomi della sua passione per i dolci fatti in casa dalla nonna, optai per una semplice e mai troppo apprezzata torta di mele. Trovai tutto l’occorrente fra le mura domestiche, scongiurando così una sortita al supermercato. Ripassai i fondamentali su internet e disposi sul tavolo della cucina tutto l’occorrente: mele, farina, latte, succo di limone, zucchero, burro, uova, lievito in polvere e un cucchiaio di cannella. Poi venne il turno del frullatore, lo aveva usato solo lei, giusto d’estate per montare la panna a guarnizione di macedonie varie. Lo tirai fuori dalla scatola e, con un buon mix di pazienza e bestemmie, lo rimontai. Era uno di quegli aggeggi con la ciotola girevole, dotati di supporto per lavorare senza sforzo con le mani libere. Di lì a poco avrei scoperto che l’unico punto debole di quell’arnese era la mancanza di un coperchio e così, dopo aver sbattuto uova, tagliato la frutta e buttato gli altri ingredienti nella ciotola, azionai la prima di cinque velocità. La tragedia era nell’aria e si materializzò davanti ai miei occhi quando pensai bene di aggiungere la farina e scavallare alla velocità massima di frullatura, solo per guadagnare un po’ di tempo sulla tabella di marcia.


Non appena diedi gas, le fruste iniziarono a girare vorticosamente creando un mulinello che si allargava sempre di più. Il frullatore iniziò a vibrare ed io con lui. Era chiaro che l’intento dell’elettrodomestico fosse quello di disarcionarmi, così mi agganciai a lui con tutte le forze, come avevo visto fare in tv ai marinai attaccati con le unghie e con i denti al timone quando infuria la tempesta. Poco prima di assistere al collasso del maelström e al mio annegamento, ebbi soltanto l’istinto di staccare violentemente la presa dalla corrente. Quell’impavido gesto contribuì a salvarmi la vita, ma generò uno tsunami di impasto che esplose in cucina con inaudita violenza e ferocia.


Il piano cottura, la mia faccia, il muro di fronte, il pavimento, i fuochi e tutti i pensili erano imbrattati da una sostanza giallo canarino. Per fortuna, pensai, avevo chiuso la finestra altrimenti quella melma zuccherosa sarebbe arrivata fino al palazzo di fronte e oltre. Rimasi lì, attonito, a leccarmi le ferite e a fare il punto sullo stato della cucina. A conti fatti, un’installazione che avrebbe potuto fare la sua porca figura anche al MAXXI di Roma. Questo stupido pensiero contribuì a risollevarmi un poco il morale, mentre iniziavo a pulirmi la faccia con uno strofinaccio e a raccattare in qua e in là l’impasto della torta. Mentre salvavo il salvabile, ripopolando piano piano il contenuto nella ciotola del frullatore, flirtai per un attimo con l’idea di chiamare un amico imbianchino per ripulire tutto quel casino, ma ormai era tardi, era quasi l’ora di cena e io avevo appena deciso che a fine pulizie sarei filato a letto senza mangiare. Una sera a digiuno non mi avrebbe fatto male, anzi, la mia amata mi avrebbe visto più magro e il suo cuore si sarebbe sciolto al cospetto di quella torta di mele fatta a mano con amore e miliardi di particelle cosmiche raccattate in giro per la cucina. Ma quest’ultimo dettaglio l’avrei sicuramente omesso. Il suono del citofono mise in stand by i pensieri: mollai tutto e andai a rispondere.


“Chi è?” 


“Dolcetto o scherzetto?”


Il dolcetto te lo infilo su per il deretano, caro il mio bel bambino. Quel censurabile pensiero rimase per l’appunto tale ed io mi limitai a riagganciare la cornetta. Ci mancava solo Halloween ad allietare quel già delicato momento. Tornai ai miei impegni: riuscì a ridare alla cucina una parvenza di normalità e, quando terminai con le grandi pulizie, finii di sbucciare le mele, le disposi in cima all’impasto e infornai il tutto: riuscii a riempire una piccola teglia a forma rettangolare, abbastanza per una colazione dignitosa. Mentre portavo sul terrazzo i rifiuti organici, mi fissai su una buccia di mela che avevo fra le mani. Mi tornò alla mente un’altra stupida usanza americana e cioè che fosse possibile scoprire la lunghezza della propria vita soltanto sbucciando una mela senza mai interrompersi: più è lunga la buccia più a lungo si vive. Allora la presi, fra indice e pollice, e la sollevai dal resto dei rifiuti. Era lunga si è no come il mio prepuzio. Che presagio del cazzo, pensai, e tornai dentro. 


Questa volta, a suonare non fu il citofono ma direttamente il campanello della porta. Dannazione! Qualcuno aveva aperto il portone del condominio a quei diavoletti e così ora erano liberi di scorrazzare su e giù per il palazzo. Cercai di pensare il più lucidamente possibile, ma l’unico straccio di idea che partorii fu quella di lanciarmi dal balcone cercando di sopravvivere ai tre metri scarsi che mi separavano dal marciapiede. Poi tornai in me, raggiunsi l’interruttore della luce e lo spensi prima che qualche maledetto mostriciattolo pensasse bene di mettersi a curiosare attraverso la fessura delle chiavi. Rimasi, così, nella semioscurità della cucina con la luce del forno ad illuminare debolmente la stanza. Mi sembrò una buona idea quella di strisciare fino all’occhiello della porta per sbirciare e studiare il nemico. Eccolo lì, sotto le sembianze di una coppia di piccoli zombie. Ridacchiavano e si facevano forza l’un l’altro, aspettando pazientemente che quella porta si aprisse.


“Qui c’è qualcuno, ho sentito dei rumori”


Suonarono ancora, questa volta accompagnando il suono del campanello con il solito maledetto e tetro ritornello.


“Dolcetto o scherzetto?”


Stavo per muovermi, quando iniziarono a battere alla porta. Loro lo sapevano che ero lì dietro. In qualche modo fiutavano la mia paura. Mi concentrai e restai immobile come un cretino per un tempo lunghissimo, fino a quando non li sentii arrendersi e andarsene su per le scale alla ricerca di qualche altra preda. Rifiatai, sgranchendomi i muscoli e, dopo aver riacceso la luce, filai in bagno. Mentre mi lavavo i denti, sentii lo stomaco mandarmi latrati di disappunto. Ma ormai era deciso: sarei andato a letto senza cena. Mentre quella promessa di digiuno veniva suggellata, mi distrassi forse un po’ troppo e, quando posai lo spazzolino, fissando la mia immagine nello specchio, mi sembrò di trovarmi dinanzi a un quadro di Jackson Pollock. Poi mi resi conto del disastro: avevo schizzato ogni superficie disponibile del vetro, con saliva mista a dentifricio e i residui della merenda pomeridiana a base di mortadella e maionese. Non potevo fare finta di nulla. Anche in questo caso ne andava del mio onore: gli standard di pulizia del bagno, infatti, erano da sempre motivo di attrito fra me e la mia compagna. Per anni – e come darle torto? – la mia condotta indisciplinata l’aveva obbligata a sessioni extra di pulizia e soprattutto lo specchio era stato teatro dei miei più indegni peccati. Col tempo, però, avevo imparato a non imbrattarlo come la tela di un pittore espressionista, disciplinandomi e limando, senza cancellarle completamente, le mie lacune. Tornando allo specchio, ad esempio, ormai mi ero disciplinato, cercando di lavarmi i denti in maniera consona, senza spalancare le fauci e con la testa bassa ad altezza rubinetto di modo che eventuali schizzi non raggiungessero lo specchio ma si inabissassero nel lavandino e poco male se, spesso, avevo rischiato la cecità infilandomi il rubinetto dritto in un occhio. Così facendo, avevo ottenuto le mie prime e significative vittorie in campo domestico, abbandonando scorciatoie poco ortodosse, come l’installazione di un paio di tergicristalli sullo specchio o di lavarmi i denti impugnando un ombrello aperto con la mano libera per parare il bagno dai fuochi d’artificio che partivano dal mio cavo orale. Il piccolo prezzo da pagare per i miei progressi fu l’interdizione dall’usare il filo interdentale, in quanto non possedevo un porto d’armi.


Torniamo alla notte di Halloween. Per scongiurare, quindi, il riaffiorare di antichi dissapori, mi misi l’anima in pace e cominciai a pulire lo specchio con un apposito prodotto. Anche qui, però, ebbi troppa fretta e soprattutto la malaugurata idea di asciugare gli aloni con l’ausilio del phon, dimenticandomi il forno acceso nell’altra stanza. Quando mi accorsi di quel piccolo dettaglio, la corrente se ne era già andata ed io ero di nuovo al buio ma, questa volta, non per scelta. Mi maledii e lentamente tornai in cucina, dove cercai tastoni il mio cellulare. Quando lo trovai, mi feci luce e mi diressi verso il forno per spegnerlo. Aprii un poco lo sportello e sbirciai la torta di mele: almeno il profumo era buonissimo e anche la cottura sembrava ok. Così la tirai fuori e la misi sul tavolo nella sua teglia usa e getta a raffreddare. Il passo successivo fu quello di uscire di casa e raggiungere il quadro elettrico della nostra utenza, posto al piano terra. Scesi le scale, sollevato nel trovarle sgombre, e feci quello che andava fatto. Tornai sul mio pianerottolo giusto in tempo per vedere dalla porta socchiusa di casa la luce, calda e rassicurante, far capolino e illuminare lo zerbino a forma di nuvola. Quando varcai la soglia della porta e mi girai per richiuderla, feci una macabra scoperta che mi raggelò il sangue. 


Sul primo gradino della rampa di scale che saliva al terzo piano, di fronte al mio ingresso, c’era una streghetta, con un cappello nero a punta, sporca di carbone in faccia. In una mano stringeva una finta scopa di plastica. Fissava nella mia direzione, ma con quegli occhi esageratamente truccati non riuscii a capire se mi stesse guardando o se invece fiutasse l’aria come un famelico predatore. Mi vennero in mente scene di spielberghiana memoria, Jurassic Park per l’esattezza, e mi immobilizzai sperando che il vecchio adagio, se non ti muovi non ti vedono, potesse valere anche nell’era cenozoica. Invece mi vide benissimo e, dopo avermi strizzato l’occhiolino, scese dal gradino e, con uno slancio da velociraptor, mi ghermì senza lasciarmi scampo.



Alle 07:30 del primo di novembre la mia dolce metà arrivò con un taxi dall’aeroporto direttamente a casa. Non la sentii aprire la porta e nemmeno entrare in stanza da letto. Mi svegliai solo quando fu a pochi centimetri di distanza dal mio volto. Il suo inconfondibile odore, un misto tra vaniglia e zucchero filato, mi fece aprire gli occhi proprio un attimo prima che lei mi baciasse delicatamente la punta del naso. Ci rotolammo un po’ nel letto come animaletti felici prima di migrare in cucina, entrambi vogliosi di caffeina. Mentre mettevo su la moka, mi parlò del suo viaggio, della riunione con i clienti americani, di un non meglio specificato collega inglese che aveva dato di matto durante un meeting, ma più in generale mi disse che era contenta di essere a casa e di stupirsi che io non l’avessi messa ferro e fuoco. Esitai un attimo, indeciso se raccontarle della torta di mele, del grosso pasticcio col frullatore combinato in cucina, di Halloween, del blackout e di come quell’implacabile e ammaliante strega si fosse portata via la nostra colazione, l’unica cosa simile a un dolcetto che avessi in casa. Ma lei mi anticipò e tirò fuori dalla borsa una busta di carta unta e accartocciata:


“Prima di uscire dall’aeroporto ho comprato due brioches”


Alla vista di quei cornetti, il mio amore toccò vette irraggiungibili ed il mio stomaco non seppe resistere, sciogliendosi in un gorgheggio famelico.


“Qui, qualcuno ha una gran fame”


“Puoi dirlo forte”


In un paio di bocconi mi sbafai una brioche poi, non contento, mi mangiai metà della sua. Stavo per dimenticarmi della torta di mele ma poi, dopo avermi a lungo scrutato, lei mi si avvicinò e fece come per carezzarmi la testa. Ma il suo intento era un altro.


“Hai qualcosa fra i capelli” disse.


La osservai prendersi fra le dita quel familiare grumo di pastella e strapparmelo da una ciocca di capelli. Se lo strofinò per un po’ fra le dita prima di avvicinarselo agli occhi, poi al naso. Inspiegabilmente e, senza darle il tempo di spiccicare parola, afferrai il libro di Melville, Moby Dick, che stava sul tavolo. Lo aprii e lessi a caso con l’unico intento di distrarla.


“Se non puoi ottenere niente di meglio dal mondo…”


Mi guardò come si guardano i bambini dopo che hanno combinato una marachella.


“…ricavane almeno un buon pasto”


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