Punti interrogativi e un sasso

   (pubblicato su Quaerere il 27/01/2021 e Downtobaker 08/01/221)

Ricordo la prima volta che sono stato con una donna per denaro, a vent’anni, una vita fa praticamente: accadde in pieno autunno, in un piccolo bordello di Berlino in cui mi ero rifugiato dopo la scazzottata con Marco. Nevicava da dio e, dopo un’insipida giornata passata a bighellonare, sulla strada per l’ostello, ci picchiammo per una banale questione di cibo. Testardo e polemico come al solito, decisi di separarmi dalla compagnia e perdermi, corpo e anima, nel quartiere di Wilmersdorf.


Eravamo distesi sul letto, io e lei, in una disadorna e piccola camera al primo piano, con le lenzuola che sapevano di talco e sperma e, alle pareti, quadri dozzinali di donne in posizioni oscene, gli occhi socchiusi, le gambe bianche, aperte come bocche affamate. Ricordo il suo viso, tutto sommato grazioso, e ricordo il suo corpo sfatto e molle nascosto a malapena da microscopica biancheria intima, il contrasto tra la sua pelle candida e morbida e la durezza dei suoi gesti, del suo inglese stentato; le mie mani nervose e inesperte che cercavano i suoi seni e lei, immobile, schiacciata, a fingere con lo sguardo un piacere di plastica, qualcosa che non si può vendere ai pischelli. Mentre ci davamo dentro e un odore di cipria e sigarette si mescolava col nostro sudore, guardai con la coda dell’occhio l’unica finestra nella stanza: attraverso i vetri, la neve che cadeva lenta sui marciapiedi, attutendo i rumori della città, ormai bianca. Fantasticai su come mi sarebbe piaciuto diventare neve, trasformarmi in un piccolo fiocco freddo, uno di quei minuscoli frattali stellati che caracollano giù dal cielo e fanno felici i mocciosi, e trasformano i giardini, le strade, le case in un ipnotico paesaggio bianco. E allora, pensai, non ci sarebbero stati più amici da picchiare, bassi istinti da assecondare, né corpi estranei su cui strusciarsi, mentre facciamo i nostri versi da giovani cani affamati: sarei stato impegnato solo a cadere, a volare piano piano fino a terra, io, la neve.

Non so perché scrivo queste cose: forse perché, al giro di boa dei quarant’anni, sto iniziando a mettere tutto in discussione, a pormi domande assurde circa la mia esistenza e il relativo disincanto con cui la sto affrontando. Ho fatto qualche scelta sbagliata? Che cosa voglio? Chi sono veramente? Che cosa ho fatto finora d’importante? Valgo davvero qualcosa? Come sarà il futuro? Sul serio devo imparare a fare le stories su Instagram? In quale direzione orientare il tempo che mi resta da vivere? Devo cambiare religione, lavoro, casa? Cosa? Invano cerco risposte oggi che la mia carne non è poi così dissimile da quella, flaccida e cadente, di quella troia crucca, e che probabilmente non restano molte frecce al mio arco. Ad angustiarmi non sono tanto la paura della morte, della pandemia o dei supplizi che potrebbero attendermi; è piuttosto l’oblio che mi terrorizza: l’idea che io possa essere dimenticato, passare inosservato come un refolo di vento a novembre. Mi si attorcigliano le budella proprio… Ecco, infine è questo che temo, il destino degli uomini comuni. Nessuno si ricorda, né si ricorderà di loro: per le donne, quelle ‘vere’, sono solo menzioni d’onore, mai memorie; di certo non si rammentano di loro i maschi e le femmine che si sono scopati; non si ricordano di loro i figli che non hanno avuto o i genitori, ormai defunti, che li vedevano tornare a casa strafatti, con la puzza di alcool del discount addosso. La loro tomba sarà senza nome, come un sasso del cazzo in mezzo a un campo del cazzo. È di questo che ho paura.


E allora perché continua a tornarmi alla mente Berlino, la prostituta, e quella scalcinata finestra? È forse per la neve? La neve che cade e io che cado su di essa?


 


(la foto l'ho rubata a StevO)


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