Spalle al muro. O di come si dovrebbe guardare il mondo

(pubblicato su E(i)sordi il 08/02/2021 e CrunchEd il 06/10/2021)

Non era diventato veterinario per vocazione. A lui gli animali non piacevano nemmeno un granché. Non che ci fosse nulla di male. Di certo al mondo esistevano altri veterinari con quelle caratteristiche. Era dell’idea che la disaffezione verso gli animali gli desse vantaggi considerevoli nello svolgimento della sua professione. Ad esempio, ogni qual volta medicava ferite, somministrava vaccini, sopprimeva bestie troppo malate o semplicemente prescriveva terapie compassionevoli, il fatto che non ci fosse alcun trasporto emotivo e che, anzi, non sussistesse particolare feeling con le altre specie animali, gli consentiva di fare il suo lavoro in maniera distaccata, precisa, chirurgica. Intendiamoci, lo motivava svolgere al meglio la sua professione; prolungare o rendere più lieve l’esistenza di altre creature. Col vantaggio che, tutte le volte che falliva lasciando per strada qualche creatura, il dissapore che sentiva in gola non era quello del rammarico, della dolorosa perdita di un proprio simile, piuttosto, quello della sconfitta, l’amaro che ti lascia in bocca l’aver perso una sfida. E allora, continuando con le metafore sportive, schiena dritta, testa alta e pensiero alla prossima partita.

Inutile tergiversare, con gli esseri umani sarebbe stata tutta un’altra storia: in questo caso, infatti, avrebbe stentato a non farsi coinvolgere emotivamente, nella pancia oltre che nella testa. In famiglia, come tutti del resto, aveva subito lutti importanti, per colpa di malattie, o di sfortunati incidenti e l’idea di ritrovarsi a decidere fra la vita o la morte di una persona gli era semplicemente insostenibile. Inoltre, last but not least, nonostante la sua spiccata inclinazione per le arti mediche e scientifiche, giocò un ruolo importante anche la brevità del corso di studi in Veterinaria rispetto a quello più lungo e tortuoso di Medicina e Chirurgia.

 

Ma torniamo al presente, a quella domenica mattina di metà gennaio: fuori dai finestrini della sua auto era una giornata grigia e umida. Sembrava stesse per piovere da un momento all’altro e l’unica sua consolazione era il pensiero che, una volta rientrato a casa da quell’incombenza lavorativa, sarebbe potuto tornare a guardare la serie tv che aveva bruscamente interrotto per colpa di questa scocciatura. Nel frattempo, la strada che stava percorrendo cominciò a inerpicarsi in mezzo ai boschi, fra tornanti e curve a gomito sempre più impegnative. Tutto intorno, nonostante la giornata uggiosa, l’Appenino toscano era l’assoluto protagonista, avviluppando ogni cosa, e restituendo a chi lo attraversava un variegato mosaico di sfumature primaverili e un naturale senso di solenne inferiorità.

Circa quaranta minuti prima, la polizia forestale lo aveva contattato telefonicamente per chiedere il suo intervento nei pressi di un incidente che aveva coinvolto un veicolo e un animale non meglio identificato. Dalla breve conversazione, gli unici particolari emersi erano che la bestia, a seguito dell’impatto, fosse certamente morta mentre, sulla sorte della macchina, dell’automobilista o dei suoi potenziali passeggeri, non aveva avuto alcuna anticipazione. Il dottore dubitava fortemente che ci fossero stati danni a persone. Ipotizzò, piuttosto, potesse essere il solito caso in cui la sua perizia fosse stata richiesta per stabilire semplicemente se al proprietario dell’auto spettava o meno un risarcimento per responsabilità oggettiva, da richiedere all’ente proprietario del tratto di strada sul quale era avvenuto il sinistro. D’altra parte, quelle montagne erano state spesso scenario di incidenti bizzarri che avevano coinvolto animali ignari e mezzi di trasporto, tra i più svariati. Fra questi, automobili di ogni forma e dimensione ma anche moto, scooter, biciclette e una volta persino un autobus zeppo di ‘pellegrini’ giapponesi di ritorno dal centro commerciale. Non che alla fauna locale si potesse imputare chissà quale indisciplinata condotta, ma vagli a spiegare a cervi, cinghiali, lupi e caprioli, che è meglio non cercare fortune sulle strade asfaltate costruite dall’irrispettoso e insaziabile vicinato umano.

Tuttavia, c’era qualcosa di insolito in quella faccenda, un lieve ronzio che si era insinuato nella testa del veterinario fin da quando aveva concluso la telefonata. La stagione della caccia, infatti, doveva ancora chiudere i battenti e questo solitamente spingeva la gran parte degli animali a quote più alte, nascosti e ben lontani dalle strade asfaltate e dalle vie di campagna. In quei primi giorni, la caccia forzava sempre la fauna a rimanere nelle zone di propria competenza, riducendo sensibilmente la possibilità che si verificassero incidenti come quello per cui erano stati appena richiesti i suoi talenti. Inoltre, anche il luogo dove era avvenuto l’impatto contribuiva ad aumentare le sue perplessità, in quanto posizionato a una quota piuttosto bassa e troppo vicina a un centro abitato; nemmeno la fine dell’inverno era vicina quando gli animali a corto di cibo sono pronti a tutto pur di riempirsi lo stomaco. Quel ronzio, però, svanì presto e l’unica preoccupazione dell’uomo tornò a essere la linea dati del suo cellulare che, a quelle altitudini, faceva le bizze, obbligandolo all’inutilizzo del suo abbonamento di musica streaming per ripiegare sull’unico compact disc ancora presente in macchina, un album di Willy Peyote, regalo del suo ex fidanzato. Per altro, l’ultima relazione duratura che avesse avuto. La qualità audio sparata dalle casse dell’auto era scadente, segno che la moderna autoradio non fosse più abituata a riprodurre quel formato obsoleto. E così, proprio mentre dagli altoparlanti l’artista torinese cantava ‘chi sei davvero quando nessuno ti vede?’, l’uomo scorse il segnale mobile triangolare di pericolo in mezzo alla strada e, dopo aver rallentato, nel giro di una manciata di secondi si ritrovò sul luogo dell’incidente. Era quasi mezzogiorno, l’aria era tiepida e la luce del sole stava iniziando a fendere le nuvole e a farsi strada, filtrando dalla fitta vegetazione. Quando i suoi occhi misero a fuoco, vide la macchina della polizia forestale, parcheggiata alla bell’e meglio sul ciglio della strada, un’altra auto, un fuoristrada color granata, col paraurti visibilmente ammaccato in mezzo alla carreggiata e, poco più avanti la sagoma di un animale, forse un cinghiale, steso per terra esanime. Attorno alla povera bestia, tre persone: l’agente della forestale e due uomini che non conosceva.

 

Prima di scendere dalla macchina studiò ancora un poco la situazione. L’ufficiale era una sua vecchia conoscenza. Non era la prima volta che lo ingaggiava per faccende di quel tipo. Ma il dottore conosceva ancora meglio il cane dell’agente, avendolo avuto diverse volte a visita presso la sua clinica: un bastardino di mezza taglia simpatico come le emorroidi durante una cavalcata a pelo. Non riuscì, invece, a inquadrare bene i due uomini; dagli abiti che indossavano, sciatti e fuori moda, e dalle condizioni della loro auto, dedusse fossero contadini, magari allevatori di bestiame, come tanti da quelle parti. C’era qualcosa nei loro sguardi, però, che lo mise in guardia: lo fissavano in silenzio, accigliati, rancorosi, come se a stento stessero trattenendo, soffocandola, una reazione di inaudita ferocia. Il veterinario, indeciso se fidarsi o meno di quel sesto senso, indugiò ancora un po’. Uno dei due loschi figuri, il più corpulento, era un uomo di mezza età, completamente pelato. Indossava un pile verde e un paio di jeans che sembravano aver smarrito la via che portava alla lavatrice da parecchio tempo, tanto erano sudici e consumati. Le scarpe, dei vecchi anfibi di un colore ormai irriconoscibile, erano sporchi di fango e merda. L’altro, più giovane ed esile, era, se possibile, ancora più brutto, con una folta barba a incorniciargli un volto smunto e pallido. In cima a quella piramide di oscenità, se ne stava un cappello da baseball di qualche taglia più grande rispetto al cranio, all’interno del quale sparivano per metà delle orecchie larghe e grinzose come cotolette appena fritte.

Era una questione ormai radicata nel giovane dottore: la totale sfiducia negli uomini di campagna. Ovviamente si trattava semplicemente di pregiudizi che affondavano le radici nel suo modesto vissuto e che facevano riferimento a sparute esperienze professionali avute in quell’ambito. Quei pochi che aveva conosciuto, chi più, chi meno, erano tutti individui che faticavano terribilmente a prendersi le responsabilità dei propri sbagli. Uomini e donne che preferivano incolpare le bestie, la terra, il governo, o il meteo, anziché ammettere che, nella maggior parte dei casi, non valevano molto come agricoltori o allevatori. Gente che faticava a stare al passo coi tempi e che nelle pieghe del loro mestiere, talvolta, sembrava sprovveduta quanto un principiante alle prime armi. E per questo, pericolosa. Molto pericolosa.



In qualche modo, la sua amigdala domò quelle brutte sensazioni e il dottore fu così in grado di scendere dall’auto. Chiuse la portiera e camminò molto lentamente, misurando i passi ed evitando di proposito gli sguardi grevi e carichi di disapprovazione dei due uomini. Dopo aver rivolto un cenno di saluto all’agente della forestale, si avvicinò alla bestia morta in mezzo alla strada. Come aveva intuito dall’abitacolo della sua macchina, si trattava di un cinghiale. Era un grosso ungulato, dalla corporatura massiccia e zampe tozze, con un’enorme testa a forma di cuneo e un pellame setoloso a ricoprirlo completamente. Senza fare troppi convenevoli si infilò un paio di guanti in lattice e si inginocchiò a pochi centimetri dall’animale, esaminandolo accuratamente, prima con gli occhi, poi con le mani.



«Quella sudicia bestiaccia ha attraversato la strada all’improvviso. Non abbiamo frenato in tempo...» Fu l’uomo con la barba a parlare per primo, rompendo quel silenzio carico di tensione.

Quella voce stridula scosse un poco il veterinario che alzò lo sguardo e annuì sforzandosi di sorridere. Non sapeva bene se rispondere o meno, ma l’uomo lo anticipò e continuò:



«M’ha capito? Ha invaso di colpo la carreggiata... C’ha distrutto la macchina. Guardi un po’ là come l’è ridotta». Sbracciandosi goffamente, cercò di indicare il muso del fuoristrada che, in effetti, era messo davvero male: il paraurti era quasi del tutto divelto e il danno al telaio sarebbe sicuramente ammontato a qualche migliaio di euro.



«Mi scusi, il dottore è qui apposta. Non gli metta fretta, lo lasci fare il suo lavoro» disse la guardia forestale togliendolo d’impiccio e chiarendo, una volta per tutte, che senza il suo rapporto favorevole, era impossibile per loro riservarsi il diritto di essere risarciti. L’uomo con la barba bofonchiò qualcosa ma il suo compare, che ancora non aveva parlato, lo zittì incenerendolo con lo sguardo.



Il veterinario tornò alla sua perizia e con la mano iniziò a tastare il corpo dell’ungulato. La bestia era irrigidita in tutto il corpo e, cosa ancora più insolita, era ricoperta da una fitta lanugine bruna che era una caratteristica che accomunava i cinghiali durante gli inverni più freddi, quando questa speciale protezione cresce spontaneamente per proteggerli dalle rigide temperature. Ma quell’inverno era stato particolarmente mite e che l’animale presentasse ancora quella peluria era alquanto inconsueto. Come se questo non fosse già abbastanza strano, il dottore tastando scrupolosamente la pelle dell’animale, si accorse che in molti punti era troppo fredda e il cinghiale, dalla descrizione della dinamica dell’incidente, doveva essere morto da poco più di un’ora. Poi, dopo aver constatato smuovendo la testa dell’animale che avesse l’osso del collo spezzato, accadde qualcosa di ancora più misterioso: vide infatti delle gocce d’acqua, trasparenti e grumose, cadere sull’asfalto, direttamente dalle orecchie dell’animale. L’uomo toccò quella strana poltiglia e, sollevandola fra due polpastrelli, fece come per tastarla portandosela davanti agli occhi, per scrutarla meglio. Non si trattava di un grumo di sangue o di qualche altro liquame proveniente dalla bestia morta, no, quello era ghiaccio. Come per rinsaldare quella sua intuizione l’uomo palpò meglio l’animale, fra le giunture delle zampe anteriori e posteriori. Poi aprì un poco la bocca dell’animale e, resistendo a un intenso fetore, qui scovò, proprio vicino alle zanne, altri piccoli cristalli di ghiaccio. Non ebbe più dubbi: quella bestia era stata uccisa chissà quando, congelata e poi scongelata per poterla mettere in piazza e creare quella ridicola messinscena. Si alzò in piedi sfilandosi i guanti e, nell’accartocciarli, creò una piccola nuvola coi peli dell’animale che si erano depositati sul latex che finirono in gran parte sui suoi pantaloni. Ma assieme a quei peli setolosi gli sembrò di lasciare sul tessuto anche gli ultimi brandelli di tranquillità. Con la coda dell’occhio vide l’uomo corpulento, il più minaccioso dei due, sputare in terra un grosso bolo di catarro mentre poteva sentire il suo socio, a braccia conserte, bestemmiare sottovoce. Entrambi non gli staccavano gli occhi di dosso, sguardi per nulla amichevoli, che incrinavano le certezze dell’uomo, facendolo sentire inerme e in pericolo. Sempre con lo sguardo basso, fece qualche passo più in là come per rivendicare un po’ di privacy e, dando loro le spalle, si diresse verso la guardia forestale. Quella strana posizione, in mezzo fra i due uomini, a cui dava le spalle, e l’ufficiale del corpo forestale di fronte a lui con la visuale aperta verso l’incidente e il bosco, gli ricordò quello che troppo spesso era successo con il suo ex fidanzato, al ristorante, nei pub, nei bar di paese, ovunque ci fosse il mondo a tenere loro compagnia: Christian, così si chiamava, sceglieva sempre istintivamente di sedersi spalle al muro, per poter guardare fuori e vedere le altre persone, mentre lui con la stessa naturalezza si sedeva di spalle alla gente, in modo che l’unica persona che vedesse fosse il suo compagno e la tranquillizzante parete dietro di lui. Perché in fondo era proprio questo quello che era successo fra loro e il resto dell’universo, in quei tre anni e undici mesi di rapporto: Christian guardava il mondo a trecentosessanta gradi, mentre lui guardava solo Christian. Ma quello che lui riteneva potesse essere amore, con lo scorrere del tempo gli lasciò il dubbio che potesse essere solamente paura.



Scacciò via quell’inaspettata reminiscenza pregna di rimpianto e rimorsi e fece cenno all’ufficiale di avvicinarsi come si farebbe poco prima di un’importante confessione. Non fece in tempo ad aprire bocca che il dottore sentì una stretta forte al braccio destro e, subito dopo, uno strattone. A quanto pareva, e senza alcun timore reverenziale, i due si erano avvicinati al veterinario e ora il pelato, che lo teneva per il braccio in maniera poco amichevole, parlò per la prima volta con una voce roca e profonda.



«Che gli devi dire di nascosto? Dillo a tutti? C’è per caso qualche problema?»



Il dottore, spaventato, si ritrasse da quella morsa e fece un passo indietro in direzione dell’ufficiale. Massaggiandosi il braccio indolenzito, poi, lo esortò a intervenire:



«Ha visto? Mi ha messo le mani addosso. Per favore non stia lì impalato e faccia qualcosa!»



«Su, su, per favore che la giornata è ancora lunga. Non perdiamo tempo inutilmente che abbiamo tutti un sacco di cose da fare» tagliò corto il suo interlocutore.



Il tono di voce arrendevole usato dall’ufficiale fu inequivocabile e il veterinario capì in quel preciso istante la gravità del momento: non avrebbe ricevuto alcun tipo di aiuto. In qualche modo i due tizi avevano la situazione in pugno. Doveva affrontare le circostanze contando unicamente sulle proprie forze. E così fece la sua mossa.



«Quell’animale laggiù non è morto a seguito dell’incidente. A me sembra che sia stato ucciso molto prima e che…»



Il tizio con la barba lo interruppe a metà frase ed entrò a gamba tesa in quel dialogo.



«Cosa sta insinuando? Che siamo stati noi a portarlo qui, fingendo tutto? Come cazzo osa?»



«Dottore è sicuro di quello che dice?» fu la guardia forestale a parlare «è un’accusa grave».



«Io…»



Ma non riuscì a dire altro, sentì il suo corpo irrigidirsi e l’aria attorno diventare irrespirabile. Poi, sotto i suoi stessi occhi, successe qualcos’altro: con una scusa l’uomo barbuto distrasse l’ufficiale e lo convinse a seguirlo per dare un’occhiata al cinghiale steso in terra e ai danni riportati dal fuoristrada. Così facendo, il dottore rimase solo con il pelato che intanto aveva estratto dal taschino un pacchetto di Marlboro rosse.



«Vuole una sigaretta?»

«No, non fumo».

«Bravo, il fumo fa male. Provoca il cancro e di cancro si muore».



La voce dell’uomo, cavernosa e calma, aveva un che di inquietante, come se provenisse dall’oltretomba. O forse era solo l’effetto delle troppe sigarette consumate. Ad ogni modo, il pelato

continuò il suo strambo discorso.



«C’è una cosa che però voglio aggiungere. Ci preoccupiamo troppo per le malattie e non riusciamo a vivere bene il tempo che ci resta. Guardi quel cinghiale laggiù steso in terra: si è svegliato stamattina che stava bene. E guardi poi che è successo».



«Non la seguo…»



Allora il pelato si avvicinò e con finto fare amichevole gli cinse le spalle. Il braccio dell’uomo gli pesava sulla schiena come un macigno. Il veterinario stava sudando, chiuse gli occhi e per un attimo immaginò di poter volare via da lì, di tornare al sicuro fra le mura domestiche. Ma quando li riaprì era sempre lì, immerso in quella situazione del cazzo.



«Intendo dire dottore: che senso ha preoccuparsi di restare in salute quando poi al mondo esistono uomini che muoiono semplicemente perché dimenticano di respirare?»”



Pronunciò quell’ultima frase senza senso con fare minaccioso, avvicinando la fronte a quella del veterinario tanto da sfiorargli il naso. L’alito era addirittura peggio dell’odore putrido che proveniva dalla carcassa del cinghiale a pochi metri da loro. L’uomo lasciò la presa proprio nell’attimo in cui l’ufficiale del corpo forestale si girava per tornare da loro.



«Dottore, io non vedo nulla di strano: mi spiega meglio qual è il problema?»

«Si, io...»

«Tutto ok? Non ha una bella cera».



In qualche modo la paura si era impossessata di lui e, nei minuti che seguirono, l’uomo si mosse come un automa. Persino il suono della sua voce cambiò, risultando quasi estraneo alle proprie orecchie. Chiuse quella faccenda, lasciando cadere le accuse lanciate poco prima e confermando la dinamica dell’incidente descritta dai due uomini. Infine, dichiarò sul rapporto del corpo forestale che l’incidente era avvenuto per colpa del cinghiale. A questo punto, sarebbe stato compito della burocrazia ordinaria e dell’ANAS stabilire l’entità dell’ormai probabile rimborso da riconoscere per il sinistro. Non si trattenne oltre e, dopo essersi congedato dall’agente della forestale, lasciò in fretta e furia il luogo dell’incidente. Si guardò bene, invece, dal rivolgere parola agli uomini che lo avevano terrorizzato e scosso tanto in profondità: li poteva quasi sentire, mentre si allontanava, i loro sguardi, carichi di scherno e disprezzo. Mise in moto e, facendo retromarcia, avvertì un crampo allo stomaco. Qualche chilometro dopo, provò a mettere un po’ di ordine nelle sue emozioni, ma non ci riuscì completamente. Dopotutto non biasimava quegli uomini. Forse la prima persona che doveva disprezzare per quell’inaudito atto di codardia era proprio se stesso. Forse aveva paura di non essere all’altezza della vita, di non avere il coraggio. Il coraggio di tenersi strette a sé le cose più importanti: la dignità, la famiglia, gli amici, Christian, un pizzico di amor proprio.



Ridiscese con l’auto la montagna, pensando al suo mal di pancia e chiedendosi se fosse davvero possibile dimenticarsi di respirare. Era quasi l’una del pomeriggio. Un vento freddo si alzò e con lui il finestrino dell’auto che, fino a un attimo prima, era spalancato ad accogliere il suo gomito.

E anche un po’ della sua irrequietezza.





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